Quanto è doverosa la programmazione dei canali Rai su Sky?

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Lo schema del nuovo Contratto di servizio RAI, di recente approvato dal Consiglio di amministrazione ed inviato alla Vigilanza dal Ministero competente (MISE), in particolare all’art. 18, comma 2, (neutralità tecnologica) prevede alcune disposizioni per regolamentare il tormentato rapporto tra RAI e SKY.

L’art. 18 recita: “2. Nel rispetto dei principi di universalità del servizio pubblico e nel bilanciamento tra gli interessi degli utenti in regola con il canone di abbonamento e i diritti esclusivi dell’impresa,  la Rai dovrà consentire, all’esito di negoziazioni eque e non discriminatorie, la trasmissione simultanea dei suoi canali di servizio pubblico sulle diverse piattaforme distributive televisive, a condizione che sia rispettata l’integrità dei marchi, dei prodotti e delle comunicazioni commerciali, fatti salvi i diritti dei terzi”.

Non appare affatto chiaro cosa intenda dire il regolatore nell’art. 18 comma 2 del nuovo contratto di servizio. Alcuni, come il consigliere di amministrazione della Rai Siddi, che si è persino astenuto sull’approvazione dello schema da inviare in Vigilanza, ritengono che SKY si possa avvantaggiare in base alla nuova normativa e possa acquisire una posizione di grande forza nei confronti della RAI. In effetti un po’ di chiarezza forse sarebbe necessaria. Intanto “universalità del servizio pubblico” non significa “sevizio universale”. E’ nota la differenza: mentre il servizio pubblico è diretto alla collettività indistinta dei cittadini, il servizio universale è volto a soddisfare le esigenze degli utenti, dei singoli utenti, è universale non perché si rivolga ad una universalità, ma perché assicura a tutte le individualità che ne abbiano diritto l’accesso ai servizi di rete, con trasparenza e senza discriminazioni. Anche il rapporto tra “gli interessi degli utenti in regola con il canone di abbonamento e i diritti esclusivi dell’impresa” andrebbe chiarito.

Se la disposizione si riferisse alla Rai sarebbe un non-senso, in quanto i cd diritti esclusivi dell’impresa non potrebbero non riferirsi agli interessi degli utenti che pagano il canone, essendo nella mission di servizio pubblico, assentito in concessione ex lege, realizzare la programmazione in funzione degli interessi di chi paga il canone (considerato non come singolo utente, ma come cittadino partecipe ad una collettività da rappresentare secondo istanze socialmente rilevanti).Per avere un senso la detta disposizione andrebbe quindi riferita non a Rai, ma ad altri operatori, quelli privati, e l’interpretazione appare confermata dal successivo “la Rai dovrà consentire, all’esito di negoziazioni eque e non discriminatorie, la trasmissione simultanea dei suoi canali di servizio pubblico sulle diverse piattaforme distributive televisive”.

Se la Rai dovrà “consentire”, evidentemente dovrà dare il proprio assenso a richieste di altri e gli “altri” dovranno però rispettare i diritti esclusivi dell’impresa RAI, nel senso che se un operatore privato richiedesse di poter inserire nella propria offerta agli utenti (e non ai cittadini) anche la programmazione RAI, non potrebbe assolutamente pretenderne dalla concessionaria pubblica la messa a disposizione gratuita. Per uscire fuor di metafora, la questione riguarda l’annosa querelle tra RAI e SKY (la “diversa piattaforma distributiva televisiva”). Inizialmente SKY per avere nel proprio bouquet la programmazione RAI da mettere a disposizione dei propri clienti (in modo che non fossero costretti a cambiare piattaforma per passare dalla programmazione SKY a quella RAI), pagava sonoramente la concessionaria pubblica. Con l’espandersi della cd teoria del must offer SKY ad un certo punto ha smesso di pagare RAI, sostenendo che la concessionaria fosse obbligata a fornire gratis i propri programmi a SKY. Ne seguí una sorta di compromesso con RAI che assicura la propria programmazione a SKY, deprivandola però dei cd programmi premium, criptando cosí ad es fiction, film o sport di punta. Ora il Contratto di servizio sembrerebbe aver regolato la questione, obbligando, da un lato, RAI (“dovrà consentire”) a fornire la propria programmazione, dall’altro, SKY (all’esito di negoziazioni eque e non discriminatorie) a retribuire RAI in misura equa. Tuttavia la dinamica RAI/Sky dovrebbe essere impostata in modo del tutto diverso. SKY non è, a ben vedere, una piattaforma distributiva pura, non è un operatore di rete, è invece un aggregatore di contenuti audiovisivi.

La pretesa di SKY è stata sempre quella di aggiungere al suo bouquet commerciale il marchio RAI, per ampliare la propria offerta alla propria clientela. Quindi quello che RAI consentirebbe a SKY non sarebbe affatto la distribuzione in simulcast della propria programmazione, bensí la commercializzazione del marchio RAI sul bouquet SKY! Quanto alla programmazione, infatti, l’audiovisivo RAI andrebbe sulla piattaforma commerciale SKY con marchio RAI, non certo con marchio SKY, e quindi il titolare della relativa attività editoriale sarebbe sempre RAI (non si vedrebbe quindi ragione perché SKY dovrebbe pagare RAI). Lo snodo è per contro nell’utilizzazione del marchio RAI sul bouquet commerciale da offrire alla clientela SKY. SKY ad un certo punto ne pretendeva l’uso gratuito, ora il contratto di servizio evoca un equo compenso, ma il meccanismo descritto ne richiederebbe invece una retribuzione secondo criteri di mercato (poiché è al profitto di mercato che SKY mira, pretendendo di poter mettere a disposizione dei propri clienti anche la programmazione RAI). Diversamente si incorrerebbe in un indebito vantaggio a SKY, rasentandosi il pericolo di un aiuto di Stato vietato in considerazione della rinuncia da parte di RAI di entrate ad incremento delle risorse per il finanziamento del servizio pubblico, finanziando con beni pubblici (la concessione del proprio marchio) iniziative imprenditoriali private di carattere commerciale.


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