Luis Bacalov, un argentino dal cuore felliniano

0 0

“Vamos alla milonga”, ripeteva Luis ricordando gli anni giovanili del suo apprendistato musicale, non soltanto. Quell’invito era diventato il nostro saluto abituale quando ci incontravamo nel breve periodo in cui ci siamo frequentati a Roma. Luis Bacalov ci ha lasciato esattamente due settimane fa, salutato con molto affetto da tutto il mondo cinematografico.

Quando l’ho conosciuto abitava con la sua donna al n.72 di Via Del Boschetto, in quel quartiere pittoresco della Capitale tra il Colosseo e Santa Maria Maggiore, alle prime pendici dell’Esquilino, che al tempo degli antichi romani era stata la Suburra. Della quale conserva arcanamente ancora le caratteristiche di rione sovrappopolato. Viveva in un appartamento a tinte pastello, parquet, soffitto con le travi a vista, trompe l’oeil sulle porte, comodi divani, morbide luci, librerie ricolme, davvero un rifugio gradevolissimo e caldo. E all’esterno un giardino pensile su più piani, un vero orto delle Esperidi nel cuore di Roma dietro l’Istituto del Restauro del libro, ricco di una varietà di piante meravigliose, un pompelmo carico di frutti (di cui faceva dono), palme, corbezzoli, uno scenario mosso di verzura creato con rara grazia dai precedenti proprietari.

Perché gli argentini vanno alla milonga? Gli domandavo. Perché la milonga è un territorio franco in cui si affollano persone di ogni età, sesso, appartenenza, estrazione sociale; donne e uomini, anziani e ragazzi, perfino adolescenti che ballano stringendo orgogliosamente a sé donne accoglienti e mature. Non ci sono discriminazioni di sorta, si abita quel recinto protetto avvolti da una musica che non è mai frastuono, come accade in discoteca, al contrario è un’onda in grado di esaltare ogni bisbiglio, ogni frase sussurrata, ogni allusione; ammanta di magia le parole che sbocciano prepotenti nell’armonioso corpo a corpo dei ballerini.

Con la complicità della musica si stabiliscono amicizie altrimenti impossibili, in un vortice di scambi tra persone che non sarebbe neppure ipotizzabile in qualsiasi altro luogo della cosiddetta società civile.

La milonga appartiene a quel linguaggio dei corpi che deriva direttamente dalla habanera, la danza popolare dell’800 con un ritmo lineare di 6/8. Ma che presto essa stessa avrebbe dovuto cedere il passo al tango, sopraffatta da quella intensa liturgia di regole inviolabili, dalla coreografica irrigidita nell’aspetto formale ma non per questo meno trasgressiva nella sostanza.

Vamos a milonguear! Esclamava Luis, ed era un piacere ascoltarlo mentre si abbandonava a quei ricordi così nitidi e vaporosi, evocando ambienti saturi di fumo e sensualità, di ritmi struggenti e smanie intrattenibili.

Poi accadde che nel 1979 morì Nino Rota, l’anima musicale di Fellini. Il compositore scomparve per un infarto a soli 68 anni al termine delle riprese di Prova d’orchestra. E Federico si ritrovò improvvisamente orfano del suo collaboratore più stretto e misterioso, che aveva inventato per lui, e con lui, tutte ma proprio tutte le colonne sonore dei suoi film fino a quel momento. Un lutto irreparabile.

Accingendosi a dirigere La città delle donne il regista era dunque alla ricerca di un compositore che potesse lavorare accanto a sé, se non  in sostituzione quantomeno nella scia del suo divino Nino, amato alla stregua di una protesi consustanziale alla propria creatività. Tra i nomi che venivano suggeriti si fece largo piano piano quello di Luis Bacalov, il quale oltre ad aver composto gli accompagnamenti per centinaia di pellicole commerciali italiane, con rare incursioni nei film d’autore (Pier Paolo Pasolini, Damiano Damiani, Ettore Scola, Franco Giraldi e anche Francesco Rosi, nel 1997, con La tregua, tratto dal romanzo di Primo Levi), possedeva quella facilità, quella leggerezza, quella duttilità da musicista non paludato, di cui Federico era in cerca senza troppa convinzione.

Luis era un fantasioso pianista, dedito al pianoforte in Argentina dall’età di cinque anni sotto la guida del professor Enrique Barenboim, padre di Daniel il celebre direttore d’orchestra. Anche umanamente il candidato sembrava corrispondere a quella morbidezza indispensabile per adattarsi alle richieste di un autore supremamente visivo, per il quale lo spartito musicale non aveva mai assolto la funzione tradizionale di ‘commento’ alle scene – sottolineature, effetti, trasalimenti – bensì doveva interpretare una sorta di trasfigurazione delle immagini, replicarne con le note lo spirito segreto, incarnarne le trasparenze nell’accezione più profonda. Per Fellini la musica non rappresentava una sovrapposizione acustica, più o meno sapiente, del registro visivo, bensì una fusione ‘organica’ con la necessità più intima del racconto.

L’impresa non era facile per Bacalov, ma l’occasione si presentava ghiotta e la sfida irrinunciabile. Tuttavia l’incontro ‘vero’ tra i due artisti non avvenne.

Per La città delle donne trascorsi molto tempo accanto a Federico durante le lunghissime sedute di registrazione. Allora si incideva dal vivo con formazioni musicali se non proprio orchestrali certamente di notevole consistenza, e Gianfranco Plenizio era stato chiamato alla direzione. Mi ricordo soprattutto lo sforzo di Federico di compiere una operazione improbabile, plasmare la vena di Luis dentro un calco il più possibile rotiano. Nelle note di Bacalov c’erano la dolcezza, l’evocatività, la malinconia, ma mai  quel timbro preciso e inimitabile che il regista riusciva a ottenere nell’alchimia con Nino Rota. Luis era a disagio, affannato a raggiungere un traguardo invisibile, sfuggente e forse inesistente. La sua solida professionalità, la sua vasta esperienza da suonatore di milonghe, portavano inevitabilmente dietro l’origine argentina, l’impronta sudamericana di una nostalgia venata di perdita, di rimpianto, di spleen, più che di sogno e di attesa. Quella medesima ispirazione che aveva condotto Luis a trovare in Italia una spontanea affinità con Sergio Endrigo, con il quale collaborò a lungo con risultati eccellenti prima di finire in tribunale per la colonna sonora del film di Massimo Troisi Il postino, che nel 1995 gli avrebbe donato il Premio Oscar.

Riascoltando oggi la colonna sonora di La Città delle donne si avverte il prodigioso sincretismo artistico dell’autore, capace di dominare i più svariati generi musicali con l’impavida lievità di un funambolo. Si rimane ammirati dalla spregiudicata mescolanza di sorgenti diverse, dal jazz al piano bar, dalle sonorità maliose del cinema francese del realismo poetico, all’uso di  strumenti etnici stravaganti come lo scacciapensieri; e poi le arie operistiche, le virtuosistiche parodie, i siparietti dell’avanspettacolo e del varietà, i temi martellanti da luna park accanto alle marcette scopertamente circensi, e perfino le indimenticabili canzoni dei grandi film americani del passato. Per non accennare ai carillon dell’infanzia, alle ninne nanna, alle nenie popolari incrociate suggestivamente nella sequenza del toboga. O ancora al recupero dei tanti temi già utilizzati nelle precedenti opere di Fellini, riorchestrati o rivisitati per l’occasione: le soffuse armonie di Rota simili agli affioramenti di un fiume sotterraneo che nel suo fluire travolge e assorbe ogni altra emozione.

Davvero l’esercizio vertiginoso di un trapezista sotto la cupola, la capriola più riuscita del simpatico argentino, ormai italiano, spericolato equilibrista delle note. Forse così poco rotiano nella prassi e  nella scuola, ma così indubitabilmente felliniano nel cuore.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21