Cento anni fa, Caporetto

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Cent’anni fa, Caporetto. Una disfatta che è diventata sostantivo. Non si dice: Adua, Lissa, Custoza. Come Waterloo. Basta il nome. Ma la memoria ha necessità di essere sempre alimentata. Coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo, ammonisce Primo Levi. Antidoti? La letteratura, l’arte, nelle sue molteplici forme. In questo caso, giova ricordare gli essenziali versi di Giuseppe Ungaretti, in San Martino del Carso: “Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto neppure tanto/Ma nel cuore /nessuna croce manca /É il mio cuore/il paese più straziato”. Subito dopo Il giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda; ma soprattutto Un anno sull’altipiano di un grande italiano colpevolmente dimenticato: quell’Emilio Lussu indefettibilmente sardo, leader di un autentico autonomismo, non la macchietta demagogica di un Salvini o uno Zaia: federalista di quel federalismo che si nutre di Carlo Cattaneo, e affonda le sue radici nel Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi; quel Lussu che oggi, probabilmente, guarderebbe accigliato i fermenti di Catalogna, e scenderebbe piuttosto in piazza, e pronuncerebbe i limpidi discorsi che sapeva “costruire”, non per un’Europa delle piccole patrie, piuttosto per la grande patria europea. Ecco, quell’Emilio Lussu ci dà una delle migliori opere della nostra letteratura su quella che nei libri di storia viene chiamata la “Grande Guerra”: Un anno sull’altipiano, da cui poi Francesco Rosi, nel 1970 ricava Uomini contro, interpretato da un superbo Gian Maria Volonté: film che compone una ideale trilogia che mette in luce la follia della guerra; gli altri due sono Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick, ricavato dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb, con un non meno straordinario Kirk Douglas, cui va riconosciuto il merito di averlo fortissimamente voluto al punto di finanziarlo personalmente; e naturalmente La grande guerra di Mario Monicelli con una gara di bravura tra Vittorio Gassman e Alberto Sordi. Ma, mentre scrivo, mi accorgo che non si può omettere il capolavoro di Ermanno Olmi: quel Torneranno i prati, realizzato in quelle che cent’anni fa erano le trincee sull’Altopiano di Asiago, teatro di mille sanguinose e inutili carneficine, con gli attori che hanno recitato “in presa diretta”, collettiva applicazione di una sorta di metodo Stanislavskij, che non solo l’approfondimento psicologico del personaggio e la ricerca di affinità interiore del personaggio da interpretare, si è perseguito, ma l’intero contesto, l’ambiente…

Per tornare a Lussu. Indimenticabile, la pagina dove l’io narrante si imbatte in un ufficiale invasato: “Mentre io facevo la spoletta tra i reparti, passò un colonnello d’artiglieria, seguito da due tenenti. A capo scoperto, la pistola in mano, fra gli scoppi delle granate, urlava: ‘Uccideteci, uccideteci!’. Io gli andai incontro e gli proposi di servirsi dei miei ufficiali per comunicare alle batterie l’ordine di spostare i tiri. Egli non riconobbe neppure che io ero un ufficiale. Non mi rispose e continuò a gridare frasi sconnesse. I due tenenti lo seguivano muti, lo sguardo perduto”; e ancora: “Trovai il generale comandante della brigata, in fondo a una piccola caverna, seduto, con il microfono in mano. Gli raccontai affrettatamente quanto avveniva. Egli m’ascoltava, calmo fino all’abbattimento. Io parlavo agitato, ma egli restava indifferente. Nell’eccitazione io mi lasciai sfuggire: ‘Signor generale, quante corbellerie, oggi stiamo commettendo!’. Il generale s’alzò di scatto. Io credetti volesse mettermi alla porta. Mi venne incontro e m’abbracciò, piangendo: ,Figliolo, è la nostra professione’, mi rispose”.

Cos’è stata la “Grande Guerra”, cosa sono quasi sempre le “Grandi Guerre”? Ancora Lussu: “…Ogni palmo di terra ci ricordava un combattimento o la tomba di un compagno caduto. Non avevamo fatto altro che conquistare trincee, trincee e trincee. Dopo quella dei ‘gatti rossi’, era venuta quella dei ‘gatti neri’, poi quella dei ‘gatti verdi’. Ma la situazione era sempre la stessa. Presa una trincea, bisognava conquistarne un’altra. Trieste era sempre là…Il duca d’Aosta, nostro comandante d’armata, la citava ogni volta, negli ordini del giorno e nei discorsi, per animare i combattenti. Il principe aveva scarse capacità militari, ma grande passione letteraria. Egli e il suo capo di stato maggiore si completavano. Uno scriveva i discorsi e l’altro li parlava. Il duca li imparava a memoria e li recitava, in forma oratoria da romano antico, con dizione impeccabile. Le grandi cerimonie, piuttosto frequenti, erano espressamente preparate per queste dimostrazioni oratorie…”. Eroi i soldati, che per conquistare quelle spesso inutili trincee andavano all’assalto e venivano falciati dal fuoco nemico al punto che n più d’una occasione gli stessi austro-ungarici li esortavano a non farsi ammazzare inutilmente e tornare indietro; felloni per non abbandonarsi ad altri epiteti volgari, quei loro comandanti che li mandavano al macello stando comodamente nelle retrovie, e non trovavano di meglio che incolparli per le loro sconfitte, ordinando spietatamente decimazioni e fucilazioni a impassibili carabinieri “usi obbedir tacendo”.

Lo capisco che tanti reduci si siano chiusi in un impenetrabile silenzio e non abbiano voluto parlare di quello che avevano visto ed erano stati costretti a fare, “per il re e per la patria”.


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