Sabra e Chatila, cosa c’entrano gli Assad?

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35 anni fa, proprio in queste ore, il mondo scopriva il massacro di Sabra e Chatila, perpetrato da miliziani falangisti, così definito per via del nome del campo profughi palestinese alle porte di Beirut dove la strage ebbe luogo. Oggi a pochi passi dal vecchio ingresso di quel campo sorge lo stadio di Beirut.

Per 35 anni si è parlato di questo orrore per quel di tremendo che è stato e per il coinvolgimento indiretto dell’esercito israeliano. L’8 febbraio 1983, la Commissione Kahan, istituita sul finire del mese di settembre dell’82 dal governo israeliano, giunse alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri erano state le falangi libanesi, sotto la guida di Elie Hobeika. La stessa Commissione ammise anche la “responsabilità indiretta” del Primo Ministro Menachem Begin, per aver sostanzialmente ignorato quanto stava accadendo e non aver esercitato la dovuta pressione sul Ministro della Difesa e sul Capo di Stato Maggiore affinché intervenissero a fermare il massacro, del Ministro della Difesa Ariel Sharon e del Capo di Stato Maggiore. Ricordare dunque è doveroso, ma la memoria di Sabra e Chatila dovrebbe essere anche memoria di Tel al Zattar. Anche perché non ci fu alcuna commissione d’inchiesta in Siria dopo la carneficina di palestinesi nel campo di Tel al Zaatar, perpetrato nell’estate del 76 sempre da falangisti ma con la copertura dell’esercito siriano. E’ una delle più feroci pagine della famigerata “guerra dei campi”, nella quale anche l’Olp ovviamente ha sua quota di responsabilità. Ma del massacro di Tel al Zaatar, dove vivevano tra i 50 e i 60mila profughi palestinesi, ancora non sappiamo neanche quante migliaia di persone furono sgozzate dai miliziani falangisti, dopo mesi di assedio. E si trattò di “un’ operazione” durata molti giorni. Chi ha pagato per Tel al Zaatar? Hafez el Assad?L’allora ministro della difesa siriano Mustafa Tlass? E i cristiani, visto che gli autori materiali delle carneficine tali si definivano? Un’importantissima assunzione di responsabilità si è avuta dopo la fine del conflitto con l’esortazione apostolica post-sinodale “Una Chiesa nuova per Libano” nella quale si dice che la Chiesa ha visto con dolore i suoi figli “ venire uccisi, uccidere e uccidersi tra di loro”.

Ma c’è un altro risvolto sul quale raramente si torna, rendendolo a tanti anni di distanza davvero grave; l’uomo che guidò il massacro di Sabra e Chatila, unanimemente definito dall’ONU (con qualche astensione ma senza voti contrari) un atto “di genocidio”, Elie Hobeika, è stato a lungo ministro libanese. Un incarico che negli anni Novanta, quando il Libano era un protettorato siriano, non avrebbe potuto aver luogo senza il benestare di Damasco, cioè di Hafez al-Assad. L’uomo che con le sue mani ha ucciso e guidato gli altri assassini dei profughi palestinesi di Sabra e Chatila è stato ministro, per anni, è stato anche posto a capo di un dicastero come quello per i profughi interni. Unendo la memoria di Tel al Zaatar e di Sabra e Chatila il regime degli Assad si comprende molto meglio. E forse non a caso, oggi, Sabra e Chatila è un campo profughi quasi interamente di siriani. Molti di loro vivono lì da prima del 2011.

Ma tornando alla storia, sappiamo che “l’alawita” Assad fu criticato dalla Lega Araba per la copertura offerta al massacro di migliaia di “sunniti” a Tel al Zaatar.  Critiche che anni dopo non gli avrebbero impedito di nominare ministro Elie Hobeika: questa offesa  a ogni vittima, a tutto il mondo, protrattasi per quasi un decennio, fino al suo assassinio, non ha rilievo? Chi è stato, e probabilmente è, solidale con le vittime, può non fermarsi a riflettere su cosa abbia significato scegliere e nominare proprio Hobeika ministro del Libano “sovrano”? Chi ricorda può rimuovere questa “ aberrazione”? E cosa ci dice oggi, 35 anni dopo, tutto questo? Non c’è qualcosa in questa memoria così selettiva che  non torna? Ci sono comitati, articoli, ma poche tracce del ruolo di ministro assunto dopo la guerra dall’autore di quel massacro. Proprio come di Tel al Zaatar.

Se le cose fossero andate diversamente, se la solidarietà con le vittime ci avesse aiutato a ricordare senza veli, a capire, ad andare al di là degli stereotipi, forse le vittime di oggi, quelle di Aleppo, le vittime di Homs, di vittime di Qusayr, le vittime di al-Ghouta, le vittime di Idlib, le vittime di Khan Sheikhoun, le vittime di nuovo palestinesi del massacro di Yarmouk, come le vittime delle numerosissime altre stragi di inermi civili perpetrate in Siria dal regime siriano non sarebbero finite nel dimenticatoio, rimosse, o, peggio, giustificate nel nome magari dell’antimperialismo, o della “resistenza”. Ma questa “resistenza” è la resistenza di  regimi votati ad un altro imperialismo e alla sopraffazione, all’abuso, alla distruzione dell’individuo come tale e in quanto tale.

Essere “contro l’imperialismo” non vedendo altri imperialismi può far cadere, magari inconsapevolmente, in schematismi manichei. Qui il discorso dovrebbe allargarsi; l’82, l’anno dell’orrore di Sabra e Chatila, infatti è stato anche l’anno di un’altra carneficina, quella di Hama. Quando Assad fece crollare il centro cittadino sulla testa dei suoi abitanti. Capire tutto questo, a pensarci bene,  avrebbe fatto bene a tutte quelle vittime, rendendo meno ampio l’uscio della nuova ideologia, quella dello “scontro di civiltà”.


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