“Filles du feu”, la monotona quotidianità di una guerra crudele

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Ogni anno il Festival del cinema di Locarno è capace di sorprendere, e anche questa 70esima edizione non smentisce questa sua “regola”. La “sorpresa” è costituita da un film-documentario del regista francese Stéphane Breton, si intitola: “Filles du feu”.

Breton, ha trascorso sette mesi nel Kurdistan siriano, e seguito nella loro “monotona” quotidianità i curdi siriani che combattono per difendere una nazione che di fatto non esiste, un territorio che nessuno riconosce come entità autonoma, essendo frazionato tra Turchia, Irak, Siria e Iran, preda di appetiti incrociati del sedicente Stato islamico, il regime di Bashar al-Assad, le mire di Ergogan. Milizie, quelle curde siriane dove la nessuna distinzione tra donne e uomini é la regola, dove un kalashinikov non si nega a nessuno che lo voglia e sappia usare.

Il pregio di “Filles du feu”: Breton filma una guerra senza mostrare una sola scena di guerra. Per 80 minuti la “respiri” la violenza, l’asprezza del conflitto, la ferocia di nemici che non vedi mai, ma che indovini esserci, e sai che non lasciano scampo. Non senti uno sparo, non viene esploso un solo proiettile in tutto il film, eppure vale piu’ di mille scene di sparatorie fasulle, con figuranti-soldati pagati per sparare all’impazzata per rendere “realistici” i commenti di giornalisti che scrivono seduti dietro comode scrivanie a migliaia di chilometri da dove si combatte.

Breton sceglie un altro modulo narrativo. Sul teatro di guerra c’è, lo vive; e sceglie di viverlo nella sua “monotona” quotidianità. Riprese quasi sempre ad altezza d’uomo, e sono le ragazze curde in tuta mimetica e mitra in spalla a parlare. Le segue nelle loro marce lungo le colline desertificate, in mezzo a un nulla inquietante. Le vedi che cacciano via un cane che ha dissepolto un cadavere e se ne vuole cibare; non ne mostra il corpo, ha il pudore di non “esibire” questo oltraggio come altri forse avrebbero fatto, vediamo le due ragazze che pietosamente allestiscono con delle pietre una rudimentale tomba. Poi le immagini mostrano un giorno per giorno fatto di poco cibo, di freddo, di paura, di turni di guardia… l’avvistamento di un lupo, una lunga, interminabile sequenza che comincia con il latrare di cani, che si avvicinano sempre piu’, ringhiano, quasi arrivano a minacciare, le mani strette ai mitra, poi si allontanano, l’abbaiare si fa sempre piu’ lontano, non capisci chi e cosa quegli animali volevano proteggere…

Non una macchia di sangue, ma i racconti delle ragazze parlano di violenze incredibili, subite e viste. Una delle ragazze, comandante del gruppo (lo si capisce man mano che il filmato si sgrana), mostra a Breton le rovine di Kobane, come sono state ridotte le abitazioni (“li’ c’era la cucina, qui si dormiva…”), sventrate da feroci combattimenti porta a porta.

E’ sempre la ragazza-comandante che racconta l’implacabilità degli avversari, una volta i turchi, un’altra i siriani; n’altra ancora, l’ISIS, i loro agguati, le compagne e i compagni caduti.

Quello che non ti aspetti è la “tranquillità” del racconto. Non c’è nessuna evocazione “eroica”, nessun appello al martirio; la “narrazione” procede quasi monocorde, come se si fosse rassegnati a quel destino che condanna a combattere e a essere combatuti. A un certo punto la ragazza parla di una sua amica, e di un suo rimpianto. L’amica, prima di partire per una missione, l’aveva pregata di cantarle un inno curdo: “No, ora no, non ne ho voglia, lo faro’ quando torni”, aveva risposto. L’amica pero’ in quella missione era rimasta uccisa; e la canzone negata è qualcosa che pesa ancora, alla ragazza-comandante.

Cosi’ per esempio, ti viene in mente la storia di Asia Ramayan Antar; combatteva nella milizia femminile curda in prima linea nella guerra all’ISIS. Vent’anni, è morta in combattimento un paio d’anni fa nel corso di una battaglia a Menbic, città a nord della Siria. Di lei si è parlato, era bella e qualcuno l’aveva battezzata l’Angiolina Jolie curda.

Ti chiedi: che cosa spinge le ragazze curde a imbracciare un mitra e combattere? E’ un NO radicale all’oppressione islamista, l’amore per il proprio paese, voglia di vendetta, di libertà? Non è una scelta facile: una volta arruolate rinunciano ad avere una famiglia, a sposarsi, dei figli; storie d’amore fugaci, incerte.  “Abbiamo scelto di essere soldatesse”, é la risposta. “I nostri compiti e doveri sono esattamente eguali a quelli degli uomini. Facciamo i turni di guardia come loro, andiamo in pattuglia di notte come loro, rischiamo allo stesso modo. Siamo donne combattenti a tutti gli effetti”. C’è una differenza, e non è di poca cosa: non si lasciano prendere vive, perché sanno che cosa succede a quelle, sfortunate le donne yazide, che cadono prigioniere: quando va bene, schiave sessuali dei tagliagole dell’ISIS; sistematicamente stuprate, vendute, torturate.

Cosi’ Arin Markin, vent’anni, ragazza simbolo della resistenza di Kobane, piuttosto che farsi catturare, due anni fa decide di farsi esplodere, portando con sé quanti più nemici possibile. O Ceylan Ozlap, la diciannovenne che finiti i proiettili, e circondata senza scampo, riserva l’ultimo colpo a se stessa, esplodendolo alla tempia.

Ecco: “Filles du feu” di Breton, nella sua apparente didascalicità, in quella che puo’ sembrare monotonia, ci ricorda,senza retorica, seza enfasi, “semplicemente” narrando la quotidianità di una guerra che raramente fa “notizia”, le tante, drammatiche storie di queste ragazze: storie di morte, violenza, riscatto, sangue e libertà. Sarebbe opportuno che questo film-documentario venisse proposto nelle scuole; e, perchè no?, anche in quelle di giornalismo.


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