Turchia, chiesto il massimo delle pene per i presunti golpisti, anche giornalisti rischiano l’ergastolo

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Mentre continua l’azione repressiva in Turchia, favorita dallo stato di emergenza prorogato a maggio di altri tre mesi, è ripreso alcuni giorni fa il processo contro i presunti istigatori del fallito golpe dello scorso 15 luglio. Tra i 221 imputati ci sono anche 20 giornalisti.
Circa duecento sono detenuti in carcere, 12 sono riusciti a fuggire prima dell’arresto e gli altri sono in libertà vigilata. Per tutti loro il rischio è la condanna all’ergastolo per ‘appartenenza a organizzazione terroristica’ e ‘attentato alla costituzione’.
Per poter contenere tutti gli imputatati è stata allestita un’enorme sala per le udienze nella prigione di Sincan, poco lontana dalla capitale. Tutta l’area è presidiata da poliziotti e veicoli blindati e addirittura è stata predisposta la copertura con droni e cecchini.
Al loro arrivo in tribunale, sotto una pesante scorta, i detenuti sono stati fischiati da decine di manifestanti che scandivano slogan reclamando la pena di morte.
Proprio sulla reintroduzione delle sentenze capitali si è espresso più volte il presidente Recep Tayyip Erdogan, il quale si è detto pronto a seguire il volere ‘popolare’ indicendo un referendum.
Erdogan non ha fatto mistero di ‘desiderare’ pene esemplari per quelli che ritiene i complici di Fethullah Gülen, l’ex ‘amico’ ed imam autoesiliato negli Stati Uniti che ha accusato di essere la mente del colpo di stato. Ma lui ha sempre negato qualsiasi implicazione nel tentativo di detronizzare Erdogan.
Nel corso dell’ultima udienza il pubblico ministero ha illustrato la teoria accusatoria rilevando che oltre 8.000 esponenti delle forze armate avrebbero preso parte al tentativo di golpe con l’ausilio di 35 aerei da guerra, 37 elicotteri, 74 carri armati, 246 veicoli blindati e circa 4.000 armi leggere. Il tutto per instaurare un regime laico guidato dall’esercito per frenare la radicalizzazione islamista del presidente in carica.
La tesi dell’accusa coinvolge non solo i militari, ma anche giornalisti, accademici e funzionari pubblici civili, che avrebbero supportato e propagandato l’azione terroristica attuata contro il Paese. Dopo la requisitoria e la richiesta del massimo della pena il processo è stato rinviato al 15 giugno.
Dallo scorso luglio sono state chiuse centinaia di scuole e università, giornali e altri media, sono stati licenziati migliaia di dipendenti dello Stato e altrettanti sono stati incarcerati.
I fermi continuano anche in queste ore.
Erdogan sembra non voler porre fine alla sua caccia alle streghe, con arresti di massa che non perdonano nessuno.
L’ultima ondata di ‘purghe’ da parte delle autorità turche si è abbattuta la scorsa settimana su alcuni funzionari pubblici sospettati di attentare alla sicurezza nazionale.
Negli ultimi 11 mesi almeno in 15 mila sono stati destituiti dai loro incarichi e decine di associazioni ed enti culturali sono stati dichiarati illegali.
La polizia, grazie alle nuove norme stabilite con il decreto dello stato di emergenza, oltre ad accedere alle informazioni personali che si trovano in rete, nel quadro delle inchieste che riguardano la cyber-criminalità, può procedere all’arresto senza dover formulare contestualmente un reato. Come nel caso di molti giornalisti accusati di propaganda del terrorismo.
Il repulisti voluto del presidente turco ha coinvolto ogni esponente della stampa libera, o ciò che ne è rimasto, del Paese.
Le autorità di Istanbul e Ankara hanno emanato, ad oggi, oltre 150 mandati d’arresto nei confronti di giornalisti.
Tra i colleghi finiti in carcere alcuni hanno doppia nazionalità, come i colleghi tedeschi Deniz Yucel, corrispondente di Die Welt, e Mesale Tolu, che scrive per alcuni media filo-curdi.
Molti i nomi noti della carta stampata turca o di siti di informazione online e blog finiti nel mirino del Sultano, tra cui Nazli Ilicak, 72 anni, firma di punta di molti quotidiani e commentatrice televisiva.
Una vera e propria repressione della libertà di espressione e di informazione quella messa in atto dal regime turco che ha portato in piazza in Turchia come in molte capitali europee giornalisti e organizzazioni per i diritti umani.
Nei giorni immediatamente successivi al tentato colpo di stato, l’authority per le comunicazioni aveva sospeso le trasmissioni di 54 emittenti Tv e radio ed erano stati ritirati i tesserini a 134 operatori dell’informazione.
Poi gli arresti, che continuano ancora oggi. La Turchia, ormai, è il più grande carcere del mondo per i giornalisti.


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