Trieste – Belgrado – Subotica. Un viaggio ai confini dell’umanità

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“L’Europa si deve mettere d’accordo – dice con un’aria anche sarcastica Vladimir Cucić – Dobbiamo praticare i diritti umani o fare come l’Ungheria? Picchiare e denudare le persone a meno quindici? Ci serve una direttiva precisa e chiara che l’EU fino ad ora non ci ha saputo dare”. Il commissario per i rifugiati del governo serbo Vladimir Cucić, ricevendo l’onorevole Erasmo Palazzotto, vice presidente della commissione esteri della Camera, ha pronunciato proprio queste parole al termine del loro incontro. Il deputato di Sinistra Italiana è autore di un duro attacco contro hotspot e CIE dei migranti in Italia. Palazzotto ha consegnato 800 kg di aiuti tra indumenti pesanti e sacchi a pelo, suddivisi in 384 pacchi minuziosamente controllati alla frontiera e acquistati col contributo del gruppo parlamentare di SI. Sbloccare il materiale alla dogana e consegnarle non è stato semplice, nessuno era mai venuto a portare ufficialmente aiuti con la finalità di aiutare profughi stranieri, quindi anche la burocrazia ha dovuto misurarsi con qualcosa di nuovo. Così una spedizione è partita da Trieste, a inizio Gennaio, caricando anche del materiale a fini umanitario donato dal Collegio del Mondo Unito. Le difficoltà nel consegnare il carico, come ha spiegato Cucić, “sono date da un deficit di legge, non esiste legislazione in tal senso. Anche per il Governo serbo è una situazione inedita”. La situazione dei profughi in Serbia è quella di migliaia di persone in attesa di passare il confine. La maggior parte provengono da Afghanistan e Pakistan, ma ci sono anche piccoli gruppi di altra provenienza. A Belgrado, nella zona poco distante dalla stazione, in degli hangar abbandonati ci vivono a centinaia. Sono in attesa che un passeur li conduca a un possibile passaggio.


Che sia attraverso l’Ungheria o la Croazia, poco importa. Sono solo tappe di un viaggio di chi punta alla Francia, alla Germania, all’Italia. “Non vogliamo andare nei centri profughi o nei campi, perché sappiamo che poi da li non usciamo più. Vogliamo piuttosto fare il nostro tentativo, giocarci questa partita e vedere se riusciamo a vincerla”. Si esprimono proprio in questi termini, parlano di “gioco”, ma sanno bene che in palio c’è la loro vita. Il pakistano diciannovenne che pronuncia queste parole nel mezzo di una protesta messa in piedi dalle centinaia di persone che chiedono condizioni di vita migliori, a Belgrado, indossa una sciarpa della Roma. “Voglio venire in Italia, è il mio sogno”. La maggior parte invece ha in mente altre destinazioni. La Francia la più gettonata. Spiegano la ricercatrice siciliana Alessandra Sciurba e l’avvocato Claudia Alaimo della Clinica Legale per i diritti umani di Palermo “di aver incontrato tantissimi di questi profughi offrendo loro tutela legale in caso di abusi. Sono state riscontrate dalle testimonianze, tutte molto simili tra loro, che i punti più pericolosi del viaggio sono i passaggi in Ungheria, Bulgaria e Croazia. Per assurdo la Serbia, che della UE non fa parte, non fa nulla per mettere i bastoni tra le ruote ai migranti, li lascia anzi abbastanza liberi di muoversi. Le condizioni in cui vivono sono durissime, perché non c’è acqua, non ci sono i servizi igienici e fa davvero molto freddo. Ma il sogno della libertà è per loro molto più grande e sono evidentemente determinati e disposti a tutto pur di farcela”. Tra i racconti che più colpiscono delle tante persone che qui vivono, certo c’è la storia di Aziz. Dopo che sono entrati in Croazia (nella UE dal 2013) la polizia ha arrestato suo padre ed espulso lui, che ha undici anni. “E’ assolutamente illegale, espellere un bambino”, specifica l’avv. Alaimo, facendo notare che “nella convenzione dei diritti del fanciullo di New York del 20/11/89 vi è un divieto di separazione dai genitori (art 9) e lo obbliga lo Stato a occuparsi del fanciullo nel caso sia privato anche temporaneamente dal suo ambiente famigliare. Ha diritto ha una protezione e aiuti speciali dallo stato. Sia Croazia che Serbia hanno aderito a questa convenzione”.

Gli hangar abbandonati di cui le immagini stanno facendo il giro del mondo, sono in realtà nulla di più che un punto di passaggio, un parcheggio. Sono i passeur che gestiscono il traffico di persone in questo posto. Mischiati agli altri attendono attorno al fuoco dove viene bruciato di tutto pur di alzare la temperatura. C’è un odore insopportabile ed è difficile resistere. L’alternativa è stare fuori al gelo, a osservare i lavori per la costruzione dell’enorme WaterFront, un cantiere gigantesco dove, con fondi e investimenti arabi, stanno sorgendo enormi grattacieli e palazzi ultramoderni. Uno dei punti dove vengono condotti i profughi per tentare di superare il confine senza essere trovati dalla polizia di frontiera ungherese o croata, è Subotica, 200 km a Nord di Belgrado, sulla linea che separa la Serbia dall’Ungheria. Nei pressi di una fabbrica di mattoni abbandonata, in mezzo al nulla e nascoste nel buio, ci passano la notte in tantissimi, aspettando la chiamata. Passano in questo posto anche quattro o cinque notti. Se non riescono a passare sono destinati a tornare a Belgrado, aspettare di essere ricondotti sulla linea del confine e riprovare. Tra questi, anche qui si trovano parecchi minorenni. “Riprovarci? Certo che lo faccio, sarà la sesta volta che tento. Devo giocarmela e sperare prima o poi di passare. Ce l’hanno fatta in tanti, ci riuscirò anche io”. Ha 13 Hasam, è partito cinque mesi fa dall’Afghanistan e sogna di raggiungere la Francia. Ha ferite sulle gambe causate dai cani dei soldati ungheresi. Come lui tanti altri. Molti non hanno nulla ai piedi. Il confine è blindatissimo ma non a impedire il completo passaggio dei profughi, giusto a limitarne le dimensioni. Qualcuno ce la fa sempre, anche se si tratta di piccoli numeri. Altri, più adulti raccontano che “la polizia serba è molto tollerante con noi, non ci crea nessun fastidio, ma quella ungherese invece è spietata. Ci picchiano, ci fanno azzannare dai cani e poi ci spogliano. Ci lasciano in mezzo alla neve, in questo deserto bianco e gelato, senza le scarpe”. C’è chi è morto di ipotermia, qui si raggiungono temperature rigidissime. Due italiani, Alessandro Metz, cooperatore sociale ed ex consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia, e Gianni Cavallini, dirigente sanitario in Friuli, stanno distribuendo sacchi a pelo e scarpe in un luogo dove è talmente e buio e gelido che si fa fatica anche a distinguersi. Dal buio escono persone che quando si accorgono che chi è arrivato lo ha fatto per potare degli aiuti, la scena che si presenta di fronte è quella di decine e decine di loro, per lo più afghani e pakistani, che stremati e infreddoliti, quasi increduli, si fanno avanti nel nero della notte. Ricevono sacchi a pelo, calze, scarpe e maglie in pile. Ognuno ha una storia da raccontare. Stanno qui da giorni aspettando il momento a temperature rigidissime e con pochissimo cibo. Alcune facce sono le stesse incontrate negli hangar di Belgrado.


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