Nel #giornodellamemoria si addensano gli incubi di un nuovo conflitto israelo-palestinese

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Mentre viviamo con costernazione il Giorno della Memoria, il vento gelido siberiano del Buran da Auschwitz soffia impetuoso sulla fragile e irrequieta pace tra Israele e Palestina. I clangori di un nuovo conflitto, seppure non tradizionale, tra le due nazionalità assordano Gerusalemme e risuonano fino a Bruxelles e Washington. Mentre scompaiono anche gli ultimi superstiti dello sterminio nazista, la storia sembra affievolire il suo monito alle generazioni future e ai governanti, ignari dei segnali che provengono dai paesi occidentali di un risveglio del razzismo, dell’antisionismo e del nazionalismo esasperato ed identitario.

L’aggressiva politica estera del nuovo presidente Trump contro le popolazioni islamiche, con il blocco degli accessi per i profughi siriani e la decisione di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, oltre ad un appoggio senza condizioni alla politica espansionistica del premier israeliano Netanyahu, fanno presagire avvenimenti drammatici e sanguinari. Da ultimo, anche il via libera ufficiale di Netanyahu di creare altri 2500 insediamenti in Cisgiordania nella regione di Gerusalemme, in barba alle risoluzioni degli organismi internazionali dall’ONU alla UE, ma col beneplacito informale di Trump, che ha delegato la “Questione Israele-Palestina” al genero Jared Kushner, da lui definito ‘‘l’unico in grado di portare la pace in Medio Oriente’‘. Ma a quanto sembra, il rampollo della famiglia ebraica ortodossa di origini bielorusse, oggi potente Senior White House Advisor, potrebbe incorrere in un imbarazzante conflitto di interessi, visto che una delle società edili farebbe parte della sua galassia di costruttore.

Una decisione che ha scatenato la protesta dei palestinesi: il portavoce del presidente Abu Mazen, ha bollato la decisione come “una provocazione e una sfida alla comunità internazionale”, ammonendo che la scelta “ostacolerà qualsiasi tentativo di ripristinare la sicurezza e la stabilità, e promuoverà l’estremismo e il terrorismo, ponendo ostacoli per arrivare alla pace e alla sicurezza”. Inevitabile, quindi, l’immediata convergenza politica tra gli integralisti di Hamas e i “laici”, moderati di Al Fatah, dopo dieci anni di cruenta lotta intestina. “La dichiarazione israeliana riguardo a nuove costruzioni nei territori occupati non è altro che una dichiarazione di guerra contro la pace, una dichiarazione di guerra contro la soluzione dei due Stati”, ha dichiarato Mustafa Barghouti, del Comitato esecutivo dell’Olp.

Il governo Netanyahu ha spiegato che le nuove case saranno edificate nei “blocchi più densi” degli insediamenti, destinati a rimanere parte di Israele “qualunque sia l’accordo con i palestinesi”: ovvero di essere annessi, come è già stato con Gerusalemme Est. Un’altra mossa che rischia di incendiare la regione, dunque!

Nell’assenza assordante dell’Unione Europea, incapace di condurre una sua propria autonoma strategia diplomatica sul versante mediorientale del Mediterraneo, crescono i fermenti antisionisti nei paesi prossimi ad elezioni politiche di grande rilievo, come Francia, Olanda e Germania. Ma non sono da meno anche i rigurgiti antisemiti e razzisti antislamici negli ex-paesi dell’Est, fra tutti Polonia e Ungheria. E spesso le decisioni prese dal Parlamento europeo suonano come uno “schiaffo” ad Israele e un riconoscimento tout-court dello Stato palestinese, ritenuto quasi sempre vittima della bellicosa Gerusalemme, esternando a volte un “giustificazionismo” incomprensibile anche quando a seminare i lutti sono gli atti terroristici di Hamas.

Chi non ha perso la Memoria e dimenticato l’eredità della Shoah resta soprattutto la Francia, dove la Comunità ebraica conta il maggior numero di membri, 600 mila (oltre la metà degli ebrei in Europa), anche se negli ultimi anni si assiste ad una costante fuga vero Israele di cittadini francesi di religione giudaica, dai 3 mila all’anno a partire dal 2010, ai quasi 8 mila del 2015 e ai 6 mila del 2016. L’Ayala, “il ritorno”, facilitato anche dal governo di Tel Aviv, è per ora l’unica forma di lotta silenziosa al rinascere di un odio razziale nei confronti dell’influente comunità religiosa francese. Ed è qui, in una Francia percorsa dai fremiti nazionalisti, euroscettici e antisionisti del Front National, guidato dalla Marine Le Pen (accreditata dai sondaggi come vincitrice al primo turno nelle elezioni primaverili per la presidenza della Repubblica con il 27% dei consensi), dopo i lutti seminati dai fondamentalisti dell’ISIS a Charlie Hebdo, al Bataclan e a Nizza; ebbene, proprio nella Francia che ha fatto i conti col suo passato di antisemitismo, quando il governo collaborazionista di Vichy si adoperò nella persecuzione e nella deportazione dei propri cittadini ebrei (83 mila quelli sterminati nei lager), si commemora con intensità ed ufficialità la Shoah.

Particolare e inedita la Mostra che si può visitare fino al 12 Marzo al Memorial de la Shoah di Parigi, dedicata al “Primo Genocidio del ventesimo secolo contro gli Herero e i Nama nel Sud-Ovest africano tedesco, 1904-1908”. Come accade di sovente il museo, che raccoglie testimonianze, documenti, foto, filmati, epistolari e quant’altro dell’Olocausto francese, dedica i suoi spazi espositivi per ricordare stermini che, come quello dei 6 milioni di ebrei, testimoniano la “banalità del male” degli esseri umani contro altri umani, come lo descrisse genialmente la scrittrice e filosofa Hannah Arendt.

Portato alla luce nella metà del 1990, lo sterminio dell’80% degli Herero e del 50% dei Nama (in tutto 75 mila tra uomini, donne, anziani e bambini) ebbe luogo in quella che oggi è la Namibia, e fu perpetrato con inaudita ferocia dalle truppe coloniali dell’allora Impero prussiano del Secondo Reich al comando del generale Lothar von Trotha, in reazione al sollevamento delle due etnie schiavizzate, abusate e maltrattate dai coloni tedeschi. Nell’ordine di sterminio del 2 ottobre del 1904, il generale così giustificò il suo comportamento: “Era ed è ancora oggi la mia politica quella di applicare questa forza per ottenere il terrore assoluto, fino alla crudeltà. Distruggerò le tribù ribelli facendo versare torrenti di sangue e danaro. E’ solo attraverso una tale pulizia che qualcosa di nuovo potrà sorgere e durare nel tempo”.

Furono costruiti diversi campi di concentramento, dove le popolazioni furono sterminate con il lavoro forzato, malattie, malnutrizione e maltrattamenti assidui; tra questi: Shark Island, la minuscola isola “degli squali”, ribattezzata dal comandante della guarnigione, von Zulow, “Todesinsel”, l’isola della morte. Macabro retaggio di quel genocidio sono i resti dei crani delle vittime, inviati in Germania per effettuarvi delle ricerche scientifiche. Le crudi e raccapriccianti immagini di questi “cimeli” vengono fatte vedere per la prima volta nel documentario “Igiene razziale, le vittime dimenticate del nazismo” di Guillaume Dreyfus.

Nel 1905 fu fondata a Berlino La Società per l’Igiene razziale e poi, con la legge “sulla prevenzione delle malattie ereditarie” del 14 luglio del 1933, in pieno Terzo Reich hitleriano, fu avviata la sterilizzazione forzata di 400 mila persone; quindi, dal 1940 si passò all’eliminazione delle “vite indegne di essere vissute”: 300 mila individui furono assassinati! Il genocidio in Namibia come un filo rosso si collega all’opera di “collaborazione e organizzazione” da parte dei consiglieri militari prussiani per lo sterminio di 1,5 milioni di armeni tra il 1915 e il 1916, per arrivare alla “Soluzione finale” dei lager contro ebrei, russi, rom, politici dissidenti, militari e omosessuali nella Seconda guerra mondiale.

La Germania odierna ha “ritrovato” la memoria di questo ennesimo sterminio a partire dal 2005, come del resto per quello armeno (il 22 aprile 2016 la cancelliera Merkel ha usato per la prima volta il termine genocidio), ma ancora non ha riconosciuto formalmente questo primo genocidio del Novecento e non ha ancora aderito alla richiesta di “riparazione”, avanzata dai discendenti degli Herero e dei Nama.


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