Il rischioso lavoro delle donne somale in Arabia Saudita

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Nell’autunno 2015 il Presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud si recò in Arabia Saudita e diede il via ai negoziati per mandarvi a lavorare le donne somale come colf e badanti. Dall’ottobre 2015 i due ministeri del lavoro hanno condotto serrate trattative e l’accordo sta per essere concluso con la previsione che diecimila donne somale si rechino a lavorare in Arabia Saudita. Messa così, sembrerebbe un’opportunità per le donne somale afflitte, come tante altre nel mondo, da mancanza di prospettive e miseria e, invece, è una trappola che tanti Paesi hanno già rifiutato.
In Arabia Saudita la manodopera femminile si è da tempo rarefatta a causa degli abusi cui le collaboratrici domestiche vengono sottoposte, dagli stupri sino, addirittura, al rogo e senza nessuna conseguenza per i colpevoli tanto che Stati come Etiopia, Filippine, Uganda, India e Pakistan hanno negato l’espatrio verso l’Arabia delle loro giovani proprio per il timore di violenze sessuali e fisiche. Eppure domenica scorsa il quotidiano saudita Al Eqtisadiya ha riferito che presto il Ministro del lavoro somalo si recherà nel regno per finalizzare l’accordo di reclutamento di personale. “E vogliono pure la garanzia sugli abusi sessuali che si apprestano a commettere! E ai somali chi li garantirà?” è la frase con la quale in molti hanno accolto la notizia dell’imminente firma del trattato. Già perché, tra gli altri documenti di cui si dovranno dotare le giovani somale che si recheranno a lavorare in Arabia Saudita c’è pure il certificato medico di assenza di malattie veneree che, però, non sarà richiesto ai datori di lavoro.

La previsione di mandare ragazze somale dai diciotto ai quarant’anni a lavorare presso le famiglie saudite, ha scatenato la protesta femminile in Somalia e l’accordo in via di perfezionamento è stato accusato di ledere la dignità delle donne, di sradicare la forza fertile dal Paese e di minare lo sviluppo demografico. Nella disputa che si è accesa è dovuto intervenire personalmente il Presidente Hassan Sheikh Mohamud il quale ha detto ai media “Sono molto dispiaciuto per i giudizi negativi che si sono sviluppati sull’occupazione in Arabia delle ragazze somale. Le nostre ragazze ora viaggiano da sole, senza essere coordinate dal governo. In tal modo sfuggono al controllo dei tutori dei diritti e si affidano ai trafficanti di esseri umani per superare l’Oceano, attraversare Paesi in conflitto come lo Yemen e raggiungere poi a piedi l’Arabia”.

Ma, ribattono le donne somale, l’Arabia non ha un sistema giudiziario che tuteli i diritti di donne e lavoratori che vengono considerati come schiavi. Neppure le donne saudite – proseguono le contestatrici – sono tutelate in patria: non riescono neppure a guidare un’automobile, a studiare, a lavorare in piena autonomia e hanno sempre bisogno di essere accompagnate da un uomo anche per buttare la spazzatura. Inoltre è la prima volta che la Somalia stipula con l’Arabia un accordo riguardante manodopera non qualificata in quanto è Paese membro della Lega Araba che scambia al suo interno solo personale istruito.

Anche sulla questione del certificato di assenza di malattie veneree le autorità del lavoro somale hanno dovuto precisare che i requisiti per ottenere la possibilità di occupazione in Arabia, richiesti dalle autorità saudite, comprendono i certificati penali e (solo) le prove di vaccinazione contro malattie contagiose. Ma fra queste – ribattono le donne somale – vi è anche l’AIDS!
La querelle sul lavoro dei somali in Arabia non si quieta. “Oltre alle donne, Hassan Sheikh Mohamud vende a Riad anche gli uomini!”. La polemica si estende al reclutamento di mercenari somali da parte delle autorità saudite per combattere i ribelli dello Yemen. Si stigmatizza che, invece, manchi un vero esercito somalo per combattere in casa gli Al Shabab e ci si debba avvalere, per contrastarli, di mercenari ugandesi e burundesi. Insomma, secondo molti, una contraddizione inspiegabile: la Somalia esporta mercenari propri e importa mercenari stranieri senza risolvere i fondamentali problemi della sicurezza interna.

La questione, come spesso accade, è più complicata. La comunità internazionale rifiuta di armare adeguatamente l’esercito somalo per paura che risorgano le milizie claniche che hanno insanguinato la guerra civile per vent’anni e preferisce finanziare la missione di AMISOM per contrastare la minaccia jihadista. Ma l’effetto è paradossale perché i soldati di AMISOM guadagnano dieci volte più di quelli somali e non hanno mai dimostrato un particolare accanimento nel combattere gli Al Shabab laddove spesso sono state le truppe somale, sottopagate e poco attrezzate, a dover fare il lavoro sporco. “Con quello che guadagnano, le truppe di AMISOM non hanno nessuna voglia di togliere di mezzo il nemico che le tiene in vita” lamentano i somali per le strade. E via altre polemiche mentre la Somalia si avvia finalmente a nuove elezioni e un piccolo esercito di donne somale, per povertà e ingenuità, si dirige verso l’inferno saudita.


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