Il lungo silenzio colpevole sui rohingya rotto solo dalla foto di un altro Aylan

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Il 2016 si prospettava come l’anno della svolta democratica in Myanmar. Il voto libero e senza ingerenze del novembre 2015, che aveva portato alla guida del Paese asiatico Aung San Suu Kyi, era stato accolto come un segnale di speranza. Ma già allora le notizie delle persecuzioni nei confronti della minoranza dei Rohingya, massacrati indiscriminatamente, compresi donne e bambini, avevano smorzato la gioia per quel successo che prospettava l’avvio di un processo di democratizzazione guidato dal premio Nobel per la pace.

Aung San Suu Kyi sul genocidio in atto nei confronti di questo popolo ‘reietto’ è sempre rimasta silente, non ha mai assunto iniziative per fermare questo orrore. Nessun cenno, neanche dopo l’appello rivolto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite da dodici suoi colleghi premi Nobel, tra cui l’arcivescovo Desmond Tutu e Malala Yousafzai, per porre fine alla pulizia etnica e ai crimini contro l’umanità nei confronti dei rohingya.
Un anno e mezzo fa, proprio su questo blog, raccontavo come nell’ex Birmania fosse in atto una vera e propria repressione nei contrio questo gruppo etnico di religione islamica, non riconosciuto dalla Costituzione né dalla legislazione del Myanmar, costretto a un vero e proprio esodo di massa verso il Bangladesh. Solo negli ultimi quattro mesi gli arrivi nel paese sono stati 50 mila.
Da Naypyidaw continuano a rigettare ogni responsabilità, affermando che l’aggravarsi della crisi è dovuta all’azione di gruppi ribelli radicati nella zona centrale del Myanmar, Rakhine, dove compiono massacri continui, senza badare a sesso ed età. Eppure solo oggi i nostri media si sono accorti di quanto stia avvenendo nell’ex Birmania. O meglio, hanno trovato la fotografia ‘sensazionale’ da usare per darne notizia.
Mohammed Shohayet, 16 mesi, è l’Aylan dei Rohingya. Ha ragione Roberto Saviano. L’immagine del suo corpicino inerte su una battigia, seminudo e con il viso a faccia in giù, è il riflesso speculare della foto terribile del bimbo siriano annegato dopo il naufragio nel settembre 2015 del barcone su cui viaggiava con la sua famiglia e riportato, esanime, dalle onde sulla spiaggia turca da cui era partito. Quello scatto commosse il mondo, diventando il simbolo della tragedia dell’immigrazione.
Lo screenshot del video della Cnn, che intervistando il padre sopravvissuto ci ha raccontato la storia di Mohammed, come per Aylan è diventato virale ed è destinato ad essere la rappresentazione visiva del dramma sconosciuto della sua gente. Per noi è un deja vu che mai avremmo voluto rivivere. C’è chi non ha bisogno di una foto che fa il giro del mondo per parlare di crisi e di genocidi ignorati.


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