L’amianto, il buco nero di omissioni della nostra società Intervista a Roberto Riverso, giudice della corte di Cassazione

0 0

In Italia ogni 3 ore una persona muore per l’amianto, e ogni 2 uno si ammala. Metà di tutti i decessi per cancro sviluppato sul posto di lavoro è causata dall’amianto e sono circa 3mila ogni anno le vittime in Italia; un numero che cresce anziché diminuire nonostante questa sostanza killer sia stata messa al bando nel 1992. Questo perché ci sono voluti troppi anni affinché si ammettesse che l’asbesto è mortale; anni in cui questo minerale, economico e duttile, è stato utilizzato in ogni ambito della vita quotidiana: nelle coibentazioni dei treni, nelle frizioni e nei freni delle auto, come isolante dei tetti di case, scuole e ospedali, nelle guarnizioni dei tubi, nei pavimenti in vinile, nelle tettoie di rimesse e garage, perfino la stragrande maggioranza dei tubi degli acquedotti italiani contiene tutt’ora amianto. Ma anche l’industria ha fatto un massiccio utilizzo dell’amianto con 3mila impieghi diversi. Eppure i primi scioccanti studi sulla sua nocività sono del 1909. Negli stati Uniti si accorsero che il tasso di mortalità per patologie tumorali fra i muratori cresceva a dismisura. Era colpa dell’amianto contenuto nei mattoni da costruzione. L’uso fu drasticamente ridotto; da noi accadde il contrario. Infatti siamo stati per decenni il primo utilizzatore di amianto in Europa e il secondo produttore dopo l’Unione Sovietica. Un business enorme. Eternit, Officine Grandi Riparazioni, Anic, Fibronit è infinita la lista delle grandi aziende che ne fecero un uso massiccio fino all’ultimo giorno nonostante gli operai si ammalassero. Dopo quasi 25 anni dalla messa al bando sono decine i processi in corso, quelli arrivati a sentenza hanno dato esiti discordanti perché quella da amianto è una patologia professionale diversa dalle altre. Non ci si ammala subito, ma dopo una lunga latenza dalla contaminazione, fino a 40 anni di tempo. Per questo è difficile stabilire il momento in cui gli operai si sono ammalati, e per quelli che hanno lavorato in più fabbriche che utilizzavano l’amianto, le imprese si rimpallano le responsabilità, e talvolta le giurie non potendo stabilire con certezza di chi sia la colpa, sono costrette ad assolvere i dirigenti imputati. Intanto gli operai continuano a morire di mesotelioma pleurico, un devastante tumore ai polmoni veloce e senza cura. Chi si è occupato a lungo di questi operai è Roberto Riverso, ora in Cassazione, fino ad un anno fa giudice del lavoro a Ravenna. Con provvedimenti innovativi ha riconosciuto a migliaia di operai indennizzi per l’elevata esposizione all’amianto senza aspettare che fossero colpiti dalla malattia.

Giudice Riverso, cosa rappresenta l’amianto in quella stagione industriale italiana?
“E’ stato un buco nero di omissioni e di responsabilità. Anche in Italia si sapeva che l’amianto facesse male. Eppure siamo stati condannati per non aver attuato una direttiva europea che stabiliva che anche l’esposizione minima all’amianto fosse nociva. In Italia c’era una lobby industriale che premeva perché queste normative non venissero attuate. In Inghilterra già negli anni ’60 le ferrovie hanno bonificato le carrozze perché sapevano dei rischi anche a basse concentrazioni”. E avevano ragione gli inglesi. Nei tanti processi per l’amianto ci sono casi di decessi fra le mogli degli operai, che furono contaminate semplicemente lavando le tute da lavoro dei mariti, o altre persone che lavoravano o vivevano nelle vicinanze delle grandi aziende che utilizzavano l’amianto; bastava una folata di vento per portare quella polvere bianca assassina dentro case e negozi, e basta una sola fibra per ammalarsi . Se gli inglesi riducevano l’amianto da noi si faceva l’opposto dato che il picco nell’utilizzo risale al 1980 (circa 160mila tonnellate).

Come si giustificano le aziende difronte ai propri operai morti per l’amianto?
“In questi processi si chiede una assoluzione preventiva da ogni responsabilità. Le difese delle aziende dicono che si vuole processare il progresso. In realtà si chiede semplicemente un giudizio di responsabilità rispetto alle norme vigenti. Così si perde l’occasione di apprendere la lezione che viene dall’amianto e che è diretta alla classe imprenditoriale, politica, dirigenziale, ma anche a chi aveva il compito di controllare, magistratura compresa”.

Insieme a Casson e Guariniello ha deciso di interrompere l’omertà su questo mostro. Perché?
“Noi non facciamo altro che applicare la Costituzione, a quella ci ispiriamo. Al principio di eguaglianza che deve riflettersi in ogni settore dell’ordinamento. In questi processi viene fuori una disparità di forze imponente. Bisogna padroneggiare nozioni scientifiche, mediche, tecniche e molte volte questi settori non sono neutrali rispetto alle controversie. In un processo è venuto fuori che erano state costruite teorie scientifiche ad hoc per poter alleggerire la responsabilità delle imprese”.

Cosa le dicevano gli operai che si rivolgevano a lei?
“Non chiedono altro che venga rispettata la legge, chiedono che il sacrificio dei loro cari non sia fatto passare come un incidente di percorso. Mi sembra il minimo”.

Da uomo di legge, la sentenza Eternit con la prescrizione delle accuse al magnate svizzero Schmidheiny cosa le fa pensare?
“Bisogna essere sempre molto prudenti, molto attenti rispetto alle regole del diritto quando si imbastisce un processo così, e mi fa pensare che anche la magistratura può migliorare. Nel caso Olivetti è andata diversamente. Serve una giurisprudenza più uniforme”. Anche perché nelle aule di giustizia la parola amianto verrà pronunciata ancora per molto se si calcola che, vista la lunga latenza della malattia, il picco delle morti da amianto ci sarà fra il 2020 e il 2025. E lo Stato che fa? Nella legge che mise al bando l’amianto la 257\92 si davano alle regioni 180 giorni per varare un piano amianto che stabilisse quanto ce ne fosse e come sarebbe stato smaltito. Ne sono passati quasi 9mila di giorni, ma tante regioni ancora non si sono attrezzate, dimostrando ancora di sottovalutare il problema. Eppure in Italia secondo Legambiente ci sono ancora 32milioni di tonnellate di amianto presenti sul territorio, sono almeno 300mila i siti contaminati. Il piano nazionale amianto approvato dal governo nel 2013, è stato bloccato dal MEF per ragioni economiche. La sensazione è che l’amianto sia ancora un grosso tabù che nessuno vuole svelare appieno, perché illustrarne la pericolosità metterebbe in evidenza la necessità di eliminarlo completamente e visto che lo smaltimento è costosissimo si lasciano le cose come stanno. Se solo pensiamo all’acqua potabile capiamo l’entità del problema. Tutti gli acquedotti costruiti fra gli anni ’60 e il 1992 sono in cemento-amianto. In Emilia (la sola Bologna ne ha 500km fatti così) il problema emerse dopo il terremoto del 2012, che fra i vari danni alle strutture, sbriciolò anche le tubature immettendo nell’acqua del rubinetto grosse quantità di amianto. Un problema di salute? No perché la legge non fissa la quantità massima di asbesto che l’acqua potabile può contenere.

Perché si è taciuto così a lungo e si continua a tacere sull’amianto?
“Perché la questione amianto tocca un nervo scoperto della nostra società: cioè quello del prevalere degli interessi egoistici del profitto sul rispetto della dignità e della salute delle persone”.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21