Camorra, “Illuminare le periferie” anche delle nostre coscienze resta il compito prioritario dei giornalisti

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Carissimi Luciana e Fabio, carissimi colleghi minacciati dalla camorra (e non solo),

al contrario di voi che avete scelto di restare a lavorare a Napoli io ho deciso di “fuggire” (come suggeriva Eduardo) 32 anni fa. “La mia patria è là dove c’è il lavoro” affermavano i miei nonni ed ho seguito il loro consiglio. I primi passi nel giornalismo li ho mossi proprio a Napoli, una scuola professionale ineguagliabile animata da colleghi oggi dimenticati dai più ma che sono stati grandi maestri insegnandomi la maniacale precisione nel riportare le notizie, l’ossessione per i dettagli, il rispetto assoluto per le persone. La cronaca nera è stata la mia palestra e la mia passione: del resto ero un accanito lettore di Dino Buzzati “nerista” e reporter di giudiziaria, alla faccia degli intellettuali spocchiosi che considerano la cronaca un settore di serie B. Ho assistito alla trasformazione della camorra da malavita “casareccia” dedita alle tradizionali attività (gioco d’azzardo, usura, prostituzione, ed al tollerato ed accettato contrabbando di sigarette) ad organizzazione strutturata sul territorio capace di spacciare stupefacenti, imporre il pizzo e grazie al terremoto di entrare anche in politica, controllare appalti ed amministrazione pubblica, condizionare il voto democratico. I miei maestri ricordavano i bei tempi andati quando con i “mitici” camorristi degli anni ’50 e ’60 (gli emuli insomma di Pascalone e’ Nola, O’ Malommo, etc.) potevano intrattenere proficui scambi di opinioni e lettere. Ricordo che mi mostrarono alcune buste dove sull’intestazione (a seguire il nome del mittente) c’era la località : carcere di Poggioreale, via Poggioreale, Napoli. Il Cap non era ancora stato introdotto. Scrivevano per precisare i fatti di cui erano accusati, suggerire nuove ricostruzioni, correggere imprecisioni ma anche per impartire lezioni di diritto e procedura penale, di cui erano diventati grandi esperti per necessità e per abbondanza di tempo a disposizione.

Poi tutto è cambiato. L’omicidio di Giancarlo Siani segnò il punto di non ritorno. Me ne accorsi quando a Napoli venivo come inviato del Tg3 e mi resi conto delle grandi difficoltà di fare informazione nel pieno delle guerre di camorra, dove non si facevano sconti a nessuno neanche a donne e bambini. Già allora maturai il convincimento che i cronisti in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia  (ma ormai le stesse intimidazioni avvengono in Lombardia, Lazio ed in altre regioni ) dovrebbero essere equiparati agli inviati di guerra. Troppo spesso siamo portati anche noi a mitizzare i colleghi che ci regalano i grandi reportage dai più disparati fronti di conflitto e dimentichiamo gli sconosciuti cronisti che con ostinazione ed umiltà cercano di fare il proprio lavoro, spesso scontrandosi con il disinteresse ed il disimpegno nei loro confronti degli editori e dovendo fare i salti mortali con compensi inadeguati.

Il presidente della FNSI Giuseppe Giulietti mi ha raccontato della visita che fece al giornalista Enzo Palmesano quando era parlamentare: una scena che sarebbe drammaticamente piaciuta ad Ettore Scola in una nuova versione di “Brutti, sporchi e cattivi”. Giulietti, ospite di Palmesano e sua moglie nel piccolo giardino della loro abitazione in provincia di  Caserta, vigilato dai carabinieri, era basito vedendo che in rapida successione bande di ragazzini e poi donne passavano insultando il giornalista anticamorra, ormai abituato alle ingiurie.

Troppo spesso al coraggio dei colleghi “cronisti di guerra alla camorra” non corrisponde un adeguato impegno delle istituzioni e della società civile napoletana, sfiancata da lunghi decenni di predominio malavitoso ed azzoppata dalle lusinghe che il malaffare esercita su pezzi consistenti dell’organizzazione sociale.  “Illuminare le periferie” anche delle nostre coscienze resta il compito prioritario dei giornalisti. Il vostro coraggio, la vostra ostinazione intellettuale è un monito per tutti. Insomma, nessun dorma.


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