Con l’attentato in Pakistan terroristi hanno colpito l’istruzione ‘arma’ che temono di più perché può cambiare il mondo 

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L’assalto in Pakistan  all’Università di Bacha Khan, 15 chilometri da Charsadda a nord di Peshawar, costato la vita ad almeno 25 persone, aveva un obiettivo preciso. Gli studenti, i professori, l’istruzione: protagonisti e strumento di un possibile futuro migliore, fatto di conoscenza, di cultura e di libertà. Perché la cultura rende liberi.

I talebani pakistani, rivendicando l’attentato, hanno annunciato che continueranno a colpire le scuole, i luoghi destinati a emancipare coloro che non vogliono restare incatenati a realtà arcaiche, antidemocratiche e violente.
Luoghi di istruzione dove studiare dovrebbe essere normale, un mondo fatto di ‘persone comuni’ che di fatto sono costrette a trasformarsi in ‘eroi’.

Non sorprende, quindi, che nell’attacco sia spiccata la figura di un professore definito, appunto, “un eroe” dai testimoni scampati al massacro.
Syed Hamid Hussain insegnava chimica e aveva pochi anni più dei suoi ragazzi che, usciti dall’inferno delle aule diventate il mattatoio dei terroristi, hanno raccontato del suo atto coraggioso. Non ha esitato un attimo a usare una pistola che aveva con sé per affrontare il commando armato di kalashnikov che ha fatto irruzione nell’ateneo e difendere i suoi studenti.

Hamid ha compreso subito cosa stesse avvenendo e ha urlato ai ragazzi di chiudersi in aula mentre lui usciva arma in pugno. Lo hanno freddato subito, hanno sparato in due, crivellandolo di colpi.
“Gli assalitori erano come noi, erano molto giovani – è stata la testimonianza di uno dei superstiti – indossavano giubbotti come quelli delle forze di sicurezza”.
Al momento dell’attacco al campus non erano ancora iniziate le lezioni. Molti universitari, circa 300 studenti, erano nell’ostello.

I terroristi li hanno raccolti in alcune stanze e hanno cominciato a sparare. L’allarme, scattato prima che iniziasse la carneficina, ha permesso alle forze di sicurezza di arrivare tempestivamente sul posto dove è iniziato uno scontro a fuoco con gli assalitori.
“Quando tutto è finito i soldati sono venuti a bussare nelle nostre stanze e ci hanno detto che eravamo salvi. Ma ora cambierà tutto”.
Queste le amare parole, pronunciate da uno studente di geologia, Zahoor Ahmed, riportare dal sito della rete televisiva locale Dawn, che danno spunto a una riflessione e ci porta a confrontarle con le affermazioni coraggiose e piene di speranza di un’altra studentessa pakistana sopravvissuta a un attentato, Malala Yousafzai, vittima scampata ai talebani nel 2012 perché difendeva il diritto delle bambine allo studio e per questa insignita del Noberl per la pace.

Malala, in un discorso pronunciato dinanzi all’assemblea dell’Onu qualche anno dopo il tentativo del suo omicidio, aveva affermato che il premio che le era stato riconosciuto nel 2014 non era solo per lei ma per tutti i bambini, i ‘ragazzi dimenticati’ che vogliono un’istruzione, i ‘senza voce’ che chiedono il cambiamento e per i quali non serve compassione ma ‘azioni’ per fare in modo che il suo attentato fosse “l’ultima volta che a dei bambini veniva sottratta l’istruzione”.

L’Istruzione, ‘arma’ che i talebani e gran parte dei terroristi di matrice islamica, temono di più. Un insegnamento di qualità, che vuole pari diritti per le donne, che vuole la pace in ogni angolo del mondo, è l’unico deterrente che, detto con le parole di Malala, possa fermare la loro ascesa perché “un bambino, un maestro, una penna e un libro possono cambiare il mondo”.


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