Shatile, un calcio al pregiudizio

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Una donna in calzoncini e maglia da calcio fa il suo ingresso sul campo di pallone a Shatila, Beirut. I bambini hanno la loro malizia soprattutto quelli che crescono in un non-luogo dove sono stati stipati,  tra l’immondizia, senza acqua e senza corrente ma con parabole e telefonino. 

Tutti i ragazzini nel mondo sembrano nascere con i piedi attaccati a qualcosa che rotola. Può anche essere solo una lattina vuota o una sfera fatta con preservativi nuovi di zecca che l’Europa manda in Africa. È forse il pallone più bello che abbia mai visto in vita mia perché è davvero ben fatto e perché penso ai bambini che sono nati senza tutti quei pezzi di gomma. Il pallone fatto di preservativi lo custodisce gelosamente un amico che ne colleziona tanti, da anni. Ma questa è un’altra storia rispetto al sintetico, che un privato ha costruito due passi fuori dal campo profughi Shatila, in cui una delle due porte è il polo d’attrazione dei bambini che giocano scalzi o con ciabatte scalcagnate.

 Quando entra la donna vestita come un calciatore gli adulti ridono. I bambini no. Osservano, molto attenti, continuando comunque a tirare calci al pallone.
Essere immortalati per loro non è una cosa strana, magari non hanno mai visto e non conosceranno molte altre cose che caratterizzano l’infanzia ma foto e video per loro non hanno segreti tanto che chiedono di essere ripresi. Lo fanno in inglese che imparano nelle scuole dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi. I bambini si mettono in mostra e fanno di tutto per entrare nell’obiettivo. Così la presenza della donna con pantaloncini e maglia da calcio diventa più normale appena afferra l’iPad perché fa qualcosa a loro più famigliare. La reazione cambia quando si esauriscono gli scatti, quando la donna si siede sul muretto della recinzione del campo non accennando a lasciare quel luogo di culto maschile (non solo in Medioriente per la verità). 
Appena finisce il gioco dell’iPad sembra che in quei bambini scatti un meccanismo: tutti cominciano a parlare arabo facendo finta di non conoscere l’inglese con il quale dialogavano poco prima. Il più piccolo del gruppo corre a recuperare una bottiglia d’acqua poggiata accanto alla donna che rimane quindi isolata in quella scena per un lungo momento. Passa il tempo, a poco a poco i bambini tornano ad avvicinarsi a lei che viene a sua volta immortalata poiché rappresenta una strana novità e di sicuro non troppo apprezzata. 

Gli allenatori italiani  hanno deciso di promuovere la pratica del gioco calcio tra le bambine del campo profughi di Shatila. L’Aiac sosterrà questo progetto che ha dell’impossibile soprattutto proprio per gli stessi pseudo leader che rappresentano i 18 club del campo profughi che si confrontano in due diverse leghe locali. La missione potrebbe davvero essere impossibile se non ci fossero figure di riferimento molto determinate e all’occorrenza anche autoritarie nel perseguire l’obiettivo. Il terreno neutro sarà rappresentato dall’unico spiazzo a disposizione dei bambini per giocare e dove ha sede l’associazione indipendente palestinese “Children & Youth Center – Cyc”  che insieme all’Associazione  per la Pace sei anni fa hanno istituito il progetto “Sport per Shatila” per i ragazzi nati e cresciuti profughi con il miraggio che un giorno qualcuno permetta loro di avvalersi del loro “diritto di ritorno”. In Shatila il tasso di analfabetismo è del 15% per i maschi e del 23% per le donne. 
Dare e far rispettare un impegno a chi è nato e cresciuto in una situazione di “assistenza” e in cui le regole non esistono non è semplice. Dettare dei principi in un contesto nel quale essere profughi rifugiati palestinesi – anche da tre o quattro generazioni – significa comunque rimanere stranieri senza alcun diritto sociale o civile ( oltre che l’impossibilità di cercare e svolgere un lavoro) diventa ulteriormente complicato. Inoltre è necessario tenere conto che in questo spazio di poco meno di un chilometro quadrato sono accalcate quasi 30 mila persone “governate” da una costellazione di pseudo leader religiosi e politici che frammentano ( oltre che regnare) su ogni azione, cosa o pensiero dell’esistenza di quella gente. 
Pensare ad una piccola rivoluzione di cultura e costumi è da visionari ma da qualche parte bisogna pure iniziare e non basterà che le bambine possano giocare a calcio per sconfiggere pregiudizi duri a morire persino in Italia, figurarsi in un campo profughi a Beirut, ma il proposito vale la pena di essere perseguito. 

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