L’emergenza farmaci in Rojava

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In Rojava c’è un embargo non dichiarato che impedisce a qualsiasi cosa di passare. Che siano farmaci, viveri e merci. O persone, s’intende. A questo però ci arriviamo dopo. Visitando gli ospedali presenti sul territorio ci si rende conto dei problemi. Manca quasi tutto. Dove c’è una sala operatoria funzionante, come a Derik, non c’è anestetico. Dove le strutture sono grandi e potrebbero ospitare molti pazienti, mancano i farmaci e le strumentazioni sono carenti. Una macchina per la dialisi su due è fuori uso, come nel caso dell’ospedale civile di Qamishlo. A Serekanye la situazione è anche peggiore. Oltre a queste carenze, manca anche personale specializzato, perché non dimentichiamolo qui si combatte ogni giorno e nessuno è escluso dall’impegno al fronte.

Poi c’è la questione legata ai traumi che i minori hanno subito. Qui c’è una generazione intera di giovanissimi che è nata sotto i colpi di mortaio o che ha visto i propri genitori e parenti uccisi o catturati. Sono traumi che non si dimenticano. La presenza di psicologi professionalmente formati rispetto a questo tipo di problematiche servirebbe eccome. E poi c’è il problema del sangue. Ci si affida a donatori, anche occasionali. Intendiamoci, la carenza di plasma in un territorio di guerra è una questione molto seria. E non è così poi che si risolve una crisi di questa entità, augurandosi che qualcuno e che fatalmente sia del gruppo sanguigno di cui c’è bisogno. Nonostante tutto, la vita va avanti. Le poche ostetriche presenti garantiscono assistenza a donne partorienti. Per fortuna creature continuano a nascere garantendo il ciclo della vita. Procurarsi i farmaci è molto complesso e spesso ci si affida a trafficanti che però non sempre consegnano ciò che hanno promesso e che si sono fatti profumatamente pagare. Quindi tutto ciò che arriva è analizzato prima di essere somministrato rallentando ancora i processi di intervento e somministrazione.

Molti dall’estero ne inviano ma la dogana turca e anche quella dell’Iraq del Nord di Barzani li bloccano, anche per mesi. Può capitare per questo che la gente si mobiliti per farli uscire dai magazzini di frontiera ma anche questo non basta. E capita che escano che sono o già scaduti o deteriorati. Passano solo quelli di associazioni che si costruito un credito da queste parti, come Un Ponte Per ad esempio. Sono loro che in questi anni hanno cercato una soluzione, una via praticabile per fare in modo che gli ospedali ricevano ciò di cui necessitano, ma non è stato un percorso facile. Anche la Chiesa Valdese ha dato il suo contributo e fatto arrivare parecchi medicinali. E’ chiaro che per quanto importante non si riesce a coprire il fabbisogno che sarebbe richiesto. Le realtà internazionali che riescono comunque nell’impresa, perché di questo si tratta, di rifornire le farmacie degli ospedali, non riescono però a coprire l’intero fabbisogno nonostante gli sforzi profusi. Molte persone anche per questo scelgono di lasciare questa terra. Varcano il confine con l’Iraq, altri tentano l’avventura attraversando interi stati a piedi, nella speranza di giungere in Germania o altri paesi europei. Lo abbiamo raccontato in precedenti articoli, finiscono nei campi profughi spinti dalla disperazione.

Non bisogna essere dei sopraffini analisti di geopolitica per capire che sta avvenendo anche demograficamente un cambiamento importante in questa regione. E che forse c’è più di qualcuno che avrebbe interesse a “svuotare” il Rojava. Per fortuna c’è anche chi sceglie di tornare, e lo fa. Con tute le difficoltà del caso. A Derbessye per esempio, uno dei luoghi di frontiera aperti sul confine con la Turchia si vedono centinaia di persone che tornano da dove erano scappati. I doganieri e la polizia turca fanno passare poche persone alla volta. La gente è costretta a file interminabili sotto un sole che dire cocente è poco. Chi può, sceglie sempre di lasciarli i campi profughi. A maggior ragione i curdi da quelli turchi. Mercoledì 5 luglio tra questa massa di persone c’erano donne e uomini di ogni età, visibilmente sfiancati dalle condizioni cui sono costretti. Appresso tutto ciò che possiedono, attendono pazientemente il proprio turno. Non tutti però ce la fanno. Un bambino di cinque anni è morto a causa del caldo. La madre ha chiesto invano aiuto ma non è stata ascoltata.


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