L’ubriaco che guida la Casa Bianca

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Assad appoggia l’ISIS alla conquista di Aleppo. Lo deve constatare anche la Casa Bianca. Che ottiene un solo risultato: scoprire che Obama fa rima con Vestfalia.
Il tweet della diplomazia americana forse ha sorpreso soltanto chi lo ha scritto: ” “l’avanzata dell’ISIS su Aleppo gode della copertura aerea del regime siriano”.

Per spiegarselo occorre tenere a mente alcuni elementi di base: il regime siriano ha sin dall’inizio favorito l’emergere del terrorismo in Siria e poi dell’ISIS quale modo migliore, e i fatti lo hanno provato, per rimanere in sella, giustificandosi agli occhi di molti quale argine contro il terrorismo e non quale carnefice del suo stesso popolo.

Questa funzione l’ISIS l’ha ha svolta molto volentieri, per liberarsi dello stesso nemico che aveva in comune con il regime siriano: il campo sunnita moderato. Schiacciato dal radicalismo pro-iraniano, il campo sunnita moderato ha perso a Beirut con l’eliminazione di Hariri, ha perso a Baghdad con l’elezione del khomeinista al-Maliki, ha perso in Siria, con la repressione feroce dei primi moti di piazza pacifici e non violenti.

Ed è finito nelle fauci degli estremisti. Questi ultimi ora in Siria si sono raggruppati dietro la sigla meno nota di al-Nusra, fronte jihadista sostenuto da tutto il fronte arabo del Golfo sunnita e dalla Turchia, sunnita anch’essa, in chiave anti-iraniana.

Questo cartello guidato da al Nusra ha preso il controllo dell’intera provincia di Idlib, cruciale perché senza di essa il regime di Assad rischia di perdere il corridoio che unisce sotto il suo controllo la capitale, Damasco, e la fascia costiera. Aiutare l’ISIS ad avvicinarsi ad Aleppo è dunque vitale per tagliare le vie di approvvigionamento degli insorti di al-Nusra dalla vicina Turchia. E consentire agli iraniani di organizzarsi e intervenire militarmente e direttamente, per salvare Assad. Le stragi di inermi civili che hanno accompagnato i violenti bombardamenti non hanno sorpreso nessuno e quindi non sono state notate: sono in fondo le stesse stragi che si compiono dal 2011 con i barili bomba e le armi chimiche, in particolar modo quelle al cloro.

Ora si parla, lo ha fatto il quotidiano libanese filo-iraniano as-Safir a inizio giugno, dell’invio nella provincia di Idlib di 20mila miliziani iraniani o pro-iraniani.

Il quadro è dei più devastanti: da una parte i paesi del Golfo arabo e la Turchia si sono rassegnati a sostenere i jihadisti di al-Nusra per resistere all’avanzata iraniana, dall’altra l’Iran sarebbe a un passo all’intervento diretto, insieme ai miliziani teocratico-khomeinisti di Iraq e Libano, per salvare Assad, e mantenere vivo il sogno imperiale di un blocco “sciita” da Tehran a Beirut, passando per Baghdad e Damasco, che porti i vessilli di Ciro il Grande fino alle rive del Mediterraneo.

E proprio questo è il dato più allarmante: mentre a Washington ci si balocca con nuovi corsi e “stabilità basata su quattro pilastri” (Israele, Arabia Saudita, Iran e Turchia) a Tehran si ragione come se il primo del Terzo Millennio fosse il secolo della vendetta storica, quella capace di riportare le lancette della Storia ai tempi dello scontro tra impero sassanide (persiano) e impero bizantino, con lo sbocco sul Mediterraneo a suggellare il riscatto di Dario. In mezzo, ormai inghiottiti nel buio del fallimento della politica araba, panarabista e panislamista, ci sono stati-falliti, come la Siria e l’Iraq, che verranno verosimilmente spartiti sulla regola antecedente la nascita degli Stati moderni, quella della pace di Augusta e poi di Vestfalia: “cuius regio eius religio”. Ecco il senso delle enormi deportazioni di popolazione principalmente dalla Siria, l’autorità del principe imporrà la fede dei sudditi. E questo non può che accadere sulla base della trasformazione delle culture e delle religioni in bacini di odio.

Sono giorni di angoscioso sbigottimento per società naturalmente e originariamente complesse, nelle quali l’islam e il cristianesimo avevano costruito il miracolo dell’Ottocento: proprio lì, infatti, nel Grande Levante, la traduzione della Bibbia in arabo, per opera di due missionari e di un dotto dell’Islam sunnita, Yusuf al-Asir, ha fatto dell’arabo non più la lingua del solo Corano, ma anche di tante, tantissime liturgie cristiane. Un evento epocale che suggellava come il corpo levantino fosse un corpo diverso da altri, quello del Golfo o quello maghrebino, votato per propria natura al “vivere insieme”. La devastante guerra civile libanese aveva offerto una formula di pace, gli accordi di Taif, che nessuno si è premurato di andare a sfogliare, la sola che poteva e potrebbe ridare dignità statuale ad entità fallite, fornendo garanzie a tutte le comunità e diritti a tutti gli individui. Non sta andando così. E viene naturale domandarsi, in un contesto del genere, quale spazio possano trovare i cristiani nel domani che si prefigura.

Partecipi in modo esponenziale della grande speranza dell’Ottocento, del Risorgimento arabo, i cristiani condividono per la loro quota una parte di colpa per la bancarotta politica araba. Lo ha detto con parole stupende e toccanti il vescovo di Kirkuk, che ha cura dei profughi scacciati dalle loro terre dagli aguzzini dell’ISIS: “il nostro nemico non è solo davanti a noi, ma anche dentro di noi, sotto forma di paure e ideologie che ci bloccano.”

Ma il disastro del Grande Levante è ancora di più: se lo stato come casa comune è stato un successo che ha retto tre secoli in Europa, ora anche in Europa la paura sta mettendo gli stati in crisi, in una prospettiva localista ed etnicista che assicura agli arabi di poter contare solo su stessi per poter sperare in un futuro migliore.


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