Giornata Mondiale della Pace: “Non più schiavi ma fratelli”

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Diciamo che resta un auspicio, un enorme, bellissimo augurio quello della Giornata Mondiale della Pace. È la numero 48,  questa del 2015. Non abbiamo avuto anno, però, in questo quasi mezzo secolo, in cui non dovessimo preoccuparci per qualche angolo di mondo, per qualche milione di esseri umani.

Ci dobbiamo preoccupare per quel che accade nella cronaca, subito, ora. Voglio dire per le guerre in atto e in crescita: elenco lungo, quello che ci prendiamo in eredità, con Siria, Iraq, Ucraina, Repubblica Centrafricana per citare a memoria le cose peggiori del 2014.  Dovessimo ricordarle tutte, l’elenco sarebbe di 35 guerre in atto al 31 dicembre.

Ci dobbiamo spaventare per quello che certamente accadrà in altri luoghi, in ognuno di quei Paesi in cui diritti umani e civili, libertà fondamentali e semplici, dignità individuali e collettive vengono e verranno calpestate. Lì – badate bene, l’Italia non è esclusa – una guerra in qualche modo è già in atto,  anche se le armi tacciono, anche se nessuno l’ha dichiarata. C’è, perché qualcuno prevarica gli altri.

Che Papa Francesco quest’anno abbia voluto dedicare il proprio messaggio alla schiavitù non è casuale. Il fenomeno è  sottilmente in crescita, a dispetto del pensiero comune e delle leggi internazionali che la vietano. Aumenta là dove, ad esempio, proprio la guerra porta a nuove conquiste. Il cosiddetto califfato islamico riduce in schiavitù migliaia di donne. Lo fa impunemente, senza remore, in nome di una qualche legge divina.Nel Congo di Kabila sono di fatto schiavi, anche se pagati, bambini e uomini che scavano sabbia nera nelle miniere di coltan: ci muoiono, in quei buchi, ma qualcuno grazie a loro diventa sempre più ricco.

Sono due esempi al limite, ma precisi. Potremmo arrivare anche più vicino, però. Potremmo tornare a casa nostra: qui, in Italia, ma anche negli Stati Uniti e in molti Paesi che si considerano ad “economia avanzata”, il divario fra i più poveri e i più ricchi sta crescendo a dismisura. I poveri assoluti, nel nostro Paese, sono quasi sei milioni. Lo dice l’Istat, che spiega che sono cresciuti del 20 per cento in un solo anno, fra il 2012  e il 2013.  La cosa spaventa? Deve, perché è piena di conseguenze. Chi è povero, chi non ha nulla, accetta di lavorare in situazioni disastrose dal punto di vista della sicurezza, della dignità, del salario, perché ci sono momenti in cui  avere poco è sempre meglio di non avere nulla. Così, le condizioni di lavoro declinano rapidamente, per tutti, come in un tragico domino. Attraversiamo il Mar Jonio: nella Grecia della crisi, a partire cioè dal 2009, gli stipendi sono crollati. Oggi un cameriere greco guadagna 2 euro e 80 centesimi lordi all’ora, circa un terzo di quanto intascava cinque o sei anni fa. Nelle terre del sud Italia, ma anche della Toscana, chi lavora in campagna guadagna, in nero, cifre simili.

I numeri sono spaventosi: appena 126milioni di persone sul Pianeta intascano, ogni anno, il 56 per cento del reddito totale prodotto. È solo l’uno e settantacinque per cento della popolazione mondiale. Si calcola che la povertà estrema coinvolga il 23 per cento degli esseri umani, quindi circa 1miliardo e 300milioni di persone.  È lì, in quell’immenso serbatoio di speranze mancate, che si alimentano ingiustizie e discriminazioni.  È da lì che la grande nemica, la schiavitù,  ha ripreso marciare in ogni terra conosciuta.


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