L’operetta Telecom

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Solo qualche giorno fa (finalmente) il caso di Telecom Italia era balzato in cima all’agenda delle priorità. Rimasta in sonno per anni, la storia dell’ex più importante azienda italiana del settore era tornata all’improvviso di attualità. Arrivata l’ora X della conclusione del patto di Telco, la finanziaria di comando, Telefonica ha dato il via alla conquista. «Non passi lo straniero!», il coro levatosi da palazzo Chigi e dintorni, da ministeri competenti per materia ma fino ad allora distratti. Non parliamo, per non inflazionare nelle critiche, dell’Agcom. Ed ecco rispolverata dalle cantine, cui il liberismo imperante l’aveva relegata, la scimitarra della «golden share», l’«azione d’oro» di cui lo stato potrebbe avvalersi per tutelare la sovranità nazionale. Gentili e smemorati commentatori all’unisono: la rete non si tocca… Eppoi, infine, l’urlo disperato di qualche esponente del comitato per i servizi rimasto curiosamente silente nelle settimane passate, quando veniva fuori che lo spionaggio sulle vite private è globale e generalizzato: la rete di Telecom è una struttura «sensibile» e perderne il controllo mette a rischio la sicurezza. Già. Sono anni che si dibatte attorno alla contraddizione «libertà-privacy» e anche Telecom è stata attraversata da simili tensioni, tutt’altro che commendevoli.
Passati alcuni (pochi) giorni il silenzio è di nuovo calato. Forse perché Telefonica è tornata ai suoi fasti iberici? O perché il governo -prima della crisi in corso- ha realmente approvato il regolamento attuativo della «golden share»? O perché la rete sta (ri)diventando una prerogativa pubblica? Niente di tutto questo. Si è letto di qualche conversazione telefonica tra Enrico Letta e lo spagnolo Alierta, ma è un po’ poco.
La verità sembra essere più cruda e più cinica. Il governo e il sistema politico possono ormai fare ben poco. In sostanza chi doveva decidere ha già deciso. Il ritorno di Massimo Sarmi a capo della società suona come garanzia. Non sarà un caso che per la seconda volta, alla vigilia di un terremoto societario discutibile, deve fare le valigie Franco Bernabé, reo di essere (hitchcockianamente) «l’uomo che sapeva troppo», forse troppo indipendente per i gusti dell’epoca. Del resto, il presidente prossimo alle dimissioni ha inviato una lettera alle commissioni industria e lavori pubblici del senato piuttosto netta in merito all’ assenza di una strategia politica. Vero, perché nella società dell’informazione una cosa come Telecom è politica-politica, di importanza probabilmente maggiore dei sospiri dei berluscones in rotta. Intendiamoci, se la crisi è a questo punto nessuno è senza colpa. Tuttavia, a conclusione del dramma, comincia l’operetta. Tutto questo caos per sostituire -difetti a parte- Bernabé?
È bene cominciare un tormentone: Telecom non deve difendere il tricolore per la Patria, bensì perché la questione ci porta per mano nel cuore della post-modernità e nei nuovi meccanismi del potere, che si fanno un baffo dei pastoncini politichesi.
La conclamata «italianità» non si misura nelle percentuali proprietarie ma nella consapevolezza che stiamo parlando del tessuto nervoso dell’epoca digitale. E allora, si ritorni a discutere del futuro della rete che, se tornasse davvero in mano pubblica, diverrebbe il centro dell’universo cross-mediale. Sarebbe forse l’occasione per mettere un po’ d’ordine democratico nell’inquinata storia delle frequenze, altro effetto collaterale dell’irrisolto conflitto di interessi. Altrimenti, Telecom si trasformerà in una media azienda commerciale e la rete si ridurrà alla parte prelibata di uno spezzatino. E quante migliaia di posti di lavoro ci sono in ballo, cari signori della guerra?


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