La “marchiatura” del servizio pubblico radiotelevisivo

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Il Contratto di servizio triennale che definisce i compiti che la Rai deve svolgere in quanto servizio pubblico sarà esaminato dalla Commissione di Vigilanza nei prossimi giorni. Generalmente si tratta di atto di routine che passa inosservato, ma questa volta assume un particolare rilievo poiché prelude al rinnovo della Concessione tra lo Stato e la Rai (maggio 2016).
La novità più sconcertante, imposta dal Viceministro dello Sviluppo, è quella che prescrive l’apposizione di un bollino blu per distinguere i programmi di servizio pubblico da quelli commerciali: una direttiva formalmente “finalizzata a informare i cittadini sull’impiego delle risorse pubbliche”. Non meno sconcertante è l’assenza dei programmi di intrattenimento tra i generi che la Rai è obbligata a trasmettere: una norma che avrebbe lo scopo di evitare “un annacquamento dell’intera programmazione, a scapito dei generi meno redditizi”.

Queste prescrizioni possono apparire a prima vista lodevoli o, tutt’al più, di poco conto mentre, in realtà, nascondono delle insidie che minano alle fondamenta il concetto stesso di servizio pubblico, che si caratterizza, in tutta Europa, per un «insieme equilibrato di intrattenimento, cultura, divertimento e informazione» (Risoluzione del parlamento europeo del 1996). Per capire quali conseguenze comporti una distinzione “ontologica” tra i generi, si rende necessaria una digressione. Fra le tante buone ragioni che legittimano l’esistenza del servizio pubblico radiotelevisivo vi è certamente quella di temperare la pervasività del modello commerciale di televisione, un modello che si è imposto dappertutto ed è già saldamente insediato anche nel Web, “la rete che avvolge tutto il mondo”.

La ragione sta nel fatto che la televisione commerciale – cioè quella a scopo di lucro – non ha il suo fine nella produzione di programmi, bensì nella produzione di telespettatori da vendere alle agenzie di pubblicità dopo averli contati e impacchettati con l’Auditel. Pertanto, mentre nella Tv di servizio pubblico (Rai) o in quella a pagamento (Sky) i cittadini-telespettatori sono utenti, abbonati, consumatori, nella televisione commerciale essi sono nient’altro che merce il cui valore è tanto più elevato quanto più grande è l’insieme del pubblico raggiunto dal messaggio pubblicitario. Ne consegue che essendo il programma solo un’esca per catturare il maggior numero di spettatori, la misura della sua “qualità” è data esclusivamente dall’audience: nella televisione commerciale, qualità e quantità coincidono; il contenuto e la forma del programma non hanno alcun valore intrinseco, né dal punto di vista etico né da quello estetico. Pertanto, in un paese come il nostro, con diciotto milioni di cittadini che hanno soltanto la licenza elementare o nessun titolo di studio, il livello culturale e intellettivo dei programmi della “Tv che produce e vende telespettatori” è necessariamente modesto, anche perché il target da raggiungere non è il telespettatore medio ma il telespettatore “ultimo”; quello che, oltretutto, bazzica i supermercati più abitualmente di un professionista. Paradossalmente, se la piramide si rovesciasse e il 36% dei cittadini italiani avesse la laurea, la televisione commerciale trasmetterebbe programmi di altissimo livello culturale. Va da sé, quindi che l’intrattenimento a buon mercato sia il genere di gran lunga prevalente nella programmazione della Tv commerciale.

Di conseguenza, limitando il raggio d’azione della Rai entro i confini dei programmi educativi e culturali, non vi sarebbero più argini e bilanciamenti alla diffusione di una sottocultura improntata alla spettacolarizzazione della realtà da parte di una televisione che, per sua natura, è retriva, conservatrice e restia all’innovazione.
Pertanto, se la Rai, piuttosto che utilizzare i proventi della pubblicità per migliorare la sua offerta, dovesse realizzare programmi esclusivamente commerciali – quelli che riducono i cittadini a “merce” e hanno come unico obiettivo il massimo ascolto – saremmo di fronte a uno snaturamento dei suoi compiti e dei principi che sono a fondamento del servizio pubblico e dello stesso contratto si servizio.

Per dirla tutta, nella messa in onda di programmi realizzati espressamente “a fine di lucro”, si potrebbero ravvisare addirittura gli estremi di illegittimità per la palese inosservanza da parte della Rai dei compiti assegnatigli. La “marchiatura” dei programmi per generi presenta, inoltre, un’insidia oltremodo pericolosa poiché renderebbe plausibile, alla scadenza della Concessione, la pretesa delle emittenti private di vedersi assegnate una quota di attività di servizio pubblico da remunerare con una corrispondente quota del canone: una soluzione, per certi versi, peggiore della privatizzazione poiché comporterebbe l’annichilimento del “soggetto” che eroga in esclusiva il servizio pubblico.

Quale che sia l’esito di questa querelle sul bollino blu, è un fatto che, ancora una volta, coloro che si battono per una Rai indipendente e profondamente rinnovata, una Rai che torni ad essere “la più importante industria culturale del paese”, sono costretti ad una battaglia di retroguardia in difesa di un’azienda stremata da un trentennale, opprimente, stato di assedio che mette a dura prova chiunque dall’interno tenti di affermare e difendere un principio di autonomia. 


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