“Il giorno dopo la Primavera” – di Riccardo Cristiano

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Proprio in queste ore, nelle quali crolla il regime di Bashar al-Assad, arriva nelle nostre librerie “Il giorno dopo la Primavera” (Mesogea, E 15) un libro intervista di Riccardo Cristiano con uno dei più autorevoli intellettuali arabi, Samir Frangieh, l’uomo che 15 febbraio del 2005, poche ore dopo l’assassinio di Rafiq Hariri, annunciò sulle televisioni arabe l’inizio della pacifica intifada libanese per il ritiro dell’esercito siriano dal Paese dei Cedri. E questa lunga intervista – in cui finalmente un intellettuale cristiano prospetta un dettagliato modello di democrazia consensuale per il futuro dei paesi arabo-mediorientali muovendo dalla certezza che il problema arabo non è l’Islam ma le dittature, principalmente nazionaliste- comincia proprio in quei giorni, quando i cecchini di Assad tentarono di eliminare anche lui Samir Frangieh. Che con i cecchini sui tetti vicini diceva al giornalista che lo visitava:

” Non solo è possibile spiegare la nostra storia secondo categorie europee, è anche doveroso, visto che abbiamo percorso un lungo tratto di storia insieme. A mio avviso le categorie e i nodi fondamentali sono due: la deriva autoritaria dei nazionalismi e la guerra fredda. Voi in Europa le avete vissute entrambe sulla vostra pelle. La differenza è che voi vi siete liberati prima dell’una e quindi dell’altra, noi invece ci siamo ancora dentro, e le viviamo contemporaneamente. Credo però che, impostandolo così, il problema mediorientale diventi comprensibile a tutti voi europei, visto che nazionalismi autoritari e guerra fredda li ricordate bene, ne avete sperimentato tutte le conseguenze. Ma di nazionalismi malati e guerra fredda per quanto riguarda noi, il nostro presente e la nostra storia recente, si parla poco. Si parla molto invece di Islam, di una ipotetica incompatibilità con la democrazia. Strano… Eppure, prima che nascessero i nazionalismi autoritari e si alzasse la cortina di ferro mediorientale, importanti Paesi arabi come la Siria o l’Egitto, pur essendo costituiti allora come oggi al 90% da musulmani, avevano forme democratiche «discrete» se così posso dire; di certo la morte di un detenuto per torture era un’eccezione, non la regola.”

Dunque dopo il crollo dell’impero ottomano c’erano altre realtà politiche, e anche l’Islam era un altro Islam. Poi i nazionalisti hanno preso il potere, e le loro ideologie “laiche”, inizialmente popolari, come era con Nasser, si sono trasformate in fascismi che hanno annichilito le società, e la religione: sta qui l’origine della trasformazione in ideologia politica dell’Islam. Perché i regimi laico-fascisti, come quelli ba’thisti di Saddam e di Assad, volevano l’omologazione degli individui, l’uniformazione di società complesse in blocchi unici e senza pensiero.

” È questo il cardine della cultura «laica» del partito Ba’ath, che ha fatto del nazionalismo un’ideologia e, perseguitando i Fratelli musulmani e le altre forze di ispirazione religiosa, ha dato un contributo essenziale a far sì che anche la religione si trasformasse in un’ideologia. Questo confronto tra un’ideologia malata e la religione trasformata in ideologia è stato sublimato da Osama Bin Laden, che ha cercato di assorbire tutti con la sua idea: «basta nazionalismo contro religione, la sua nuova opzione era: terrorismo contro il potere mondiale». Chi ha mandato tutto questo a gambe all’aria? La Primavera, che ha cancellato nazionalismo, islamismo e terrorismo, lanciando l’«ideologia della vita quotidiana».

La caduta di Assad sembra oggi una minaccia per l’unità del Paese, e soprattutto i leader religiosi delle comunità cristiane lo hanno strenuamente difeso. Sbagliando, secondo Frangieh: la caduta del regime offre a suo avviso una grande opportunità ai siriani e ai cristiani in particolare: quella di diventare il link tra comunità impaurite, l’unica comunità che nel dopo-guerra potrebbe offrire garanzie a tutti, dai curdi agli alawiti, dagli sciiti ai sunniti. E i Fratelli Musulmani siriani, con cui svela di essere in contatto, riconoscerebbero questo ruolo ai cristiani, accettando di fare propria la visione di uno Stato Civile.

L’intellettuale libanese è convinto che proprio il suo Paese possa offrire un contributo politico e culturale a Egitto, Siria, Iraq, Palestina, per definire una via democratica verso il futuro, perché sono paesi affini e complessi, come il Libano, e perché come loro anche il Libano ha sofferto una devastante guerra civile, inventando la pulizia etnica quando il termine ancora non esisteva:

” La guerra libanese è stata ricca di insegnamenti, perché la violenza non obbedisce alle norme conosciute. E infatti la nostra non è stata una guerra d’indipendenza o una guerra identitaria, o una guerra etnica, o una guerra comunitaria. È difficile classificarla, perché è stata una guerra che comprende tutte queste guerre. È stata una guerra tra Stati, ma anche una guerra di liberazione nazionale, una guerra comunitaria, tra cristiani e musulmani, ma anche una guerra civile all’interno delle comunità. È stata la guerra d’Israele nel nome del suo progetto di alleanza delle minoranze contro la maggioranza musulmana, ma anche la guerra della Siria nel nome della Grande Siria nelle sue frontiere stori- che. I nomi per classificare questa guerra variano da una fase all’altra, l’unica costante è la violenza, alimentata dalla memoria «storica» caricata di tutti i malesseri del passato. Ecco perché «violenza» è la parola rimossa. Si parla di aggressione, reazione, complotto, rappresaglia, legittima difesa, resistenza, vendetta… per mascherare una realtà che nessuno vuole riconoscere. Anche i concetti che noi, di sinistra, usiamo abitualmente, e cioè «lotta di classe», «guerra di liberazione nazionale», «violenza rivoluzionaria», dimostrano tutti i loro limiti. Il fatto è che la violenza ha un carattere mimetico, come spiega René Girard,4 così che ognuno diviene il doppio speculare del suo antagonista. La violenza dunque si fonda sulla reciprocità, ma sommando momenti non reciproci, perché gli antagonisti non occupano mai la stessa posizione contemporaneamente, ma successivamente… Ecco allora che solo una rinuncia incondizionata alla «violenza» può salvarci dalla «violenza mimetica». Queste idee di René Girard hanno dato un nuovo indirizzo al mio impegno per il dialogo. Tra cristiani e musulmani, tra libanesi e libanesi, tra libanesi e siriani. Per fermare la violenza, infatti, cosa dobbiamo fare? Raggiungere un cessate-il-fuoco? Fare la pace? Ma quale pace? Una pace ‘gloriosa’, la pace dei coraggiosi, o una pace banale, meschina? E in questo caso che fine faranno i grandi principi nel nome dei quali ci siamo allegramente massacrati per decenni? Mi è servito molto tempo per capire che il contrario della violenza non è la pace, cioè la pace tra comunità, ma il legame, il legame tra individui appartenenti a diverse comunità e gruppi. Così ho capito che, pacificato il Paese, l’obiettivo del nostro dialogo non doveva più essere quello di cercare un compromesso, ma di definire un progetto di vita in comune. ” La sua idea di come tradurre in pratica il sogno di una democrazia consensuale araba parte dalla lettera degli accordi di Taeff, solo in parte attuati nel 1990 in Libano, quando si trattò di porre termine al conflitto. Frangieh ricorda che quegli accordi pongono il confessionalismo come soluzione provvisoria, per tranquillizzare tutte le comunità. Poi prospettano un bicameralismo nel quale una Camera è eletta con il sistema “one man one vote”, l’altra con rappresentanze comunitarie. Ecco la formula: i diritti agli individui, nella prima Camera, le garanzie alle comunità, nella seconda. Ma Frangieh va oltre, affermando che l’uomo moderno nella sua corsa libertaria ha finito con l’identificarsi con la filosofia “dell’io sovrano”; scoprendosi però ogni giorno più solo. La cultura araba, autenticamente semita, non ha però nel suo vocabolario il termine “individuo”, che in arabo si traduce con un vocabolo che in realtà vuol dire “uno di una coppia”. Questo a suo avviso consentirà agli arabi di costruire una visione “sociale” della libertà, dove la società ha più peso che nell’Occidente individualista. E la Chiesa degli Arabi, il sogno del grande teologo Jean Corbon, consentirà agli arabi di portare questa cultura anche nella Chiesa d’Occidente, che ha bisogno di riscoprire il suo polmone orientale, ora che si è fatta troppo filosofica.


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