Vivere nella paura senza perdere l’umanità

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Proseguono gli incontri dei partecipanti alla missione di pace 2.0, organizzata dal Coordinamento degli Enti locali per la pace e i diritti umani. Dopo la tappa di Betlemme, i pacifisti sono andati in territorio israeliano, fino a Sderot, sul confine con Gaza. Ancora una volta per illuminare i conflitti volutamente oscurati da governi e media distratti. (foto di Carlo Lombardo)

Una città blindata. Così appare oggi Sderot, estremo avamposto  al confine con Gaza, obiettivo da almeno dodici anni dei tiri di razzi dalla striscia, ma anche la comunità più intransigente nei confronti dei nemici. Ogni edificio, dalle scuole alle abitazioni, anche piccole, ai centri culturali, persino le fermate degli autobus, ovunque c’è una stanza bunker per correre al riparo se suona la sirena dell’allarme . Tutto pagato dallo stato e sottratto ad altri settori, dalle scuole al welfare, agli aiuti per chi perde il lavoro.
E i nemici sono a vista. Dai terreni di un grande kibbutz  si vedono lontane le costruzioni di Gaza: oltre la zona grigia dove chi passa si prende una pallottola, controllata da sensori elettronici, mentre dall’alto di un pallone aerostatico, l‘intero territorio retto da Hamas è passato al setaccio di telecamere comandate a distanza dai servizi israeliani.

Ci spiega tutto questo Nomika Zion, un nome storico qui, suo padre è stato tra i fondatori di Israele. Lei ha fatto già alla fine degli anni ‘80 una scelta difficile: si è trasferita, insieme ad altri giovani della sua generazione a Sderot, creando Migvan, un kibbutz di città. Dopo l’operazione piombo fuso è rimasta qui per testimoniare.
Arriviamo all’indomani di una notte difficile. Dopo un nuovo lancio di razzi dalla Striscia, per fortuna senza danni,  l‘aviazione israeliana si è espressa in uno dei suoi raid  mirati. Dall’altra parte della no man’s land  i danni ci sono e non pochi. E Sderot rivive la paura della rappresaglia.  Sentiamo un botto, forse di un copertone che scoppia, ma Nomika salta, no no viene da Gaza, ma dovete capire, qui  c’è una stanza bunker ma, se fosse un razzo, non riusciremmo a raggiungerla tutti in tempo.

Bisogna capire cosa significa vivere nel terrore, qui è una sindrome di cui siamo tutti malati – spiega Nomika. Significa dormire pronti a correre nel bunker. Uscire la mattina per portare i bimbi a scuola, con l’angoscia che mentre sei in strada in auto  la sirena suoni, e tu hai appena 15 secondi. 15 secondi per spegnere il motore, staccare la cintura, staccarla ai tuoi figli e farli uscire, sdraiare per terra e cercare di proteggerli. Ogni volta pensi a quale di loro non riuscirai a salvare.

Così scorre tutto il giorno da anni, dal 2000, con la rottura tra Israele e ANP. Fino all’escalation del 2008, la rottura, non è chiaro da che parte, dell’ennesimo cessate il fuoco questa volta tra Telaviv e Hamas, l’alternarsi di razzi qassam su Sderot e i raid israeliani sulla Striscia, fino all’operazione piombo fuso. Un percorso senza ritorno, spiega la nostra ospite, che ha cambiato nel profondo il comune sentire degli israeliani. La nostra vita e’ un passare da una guerra a un’altra, e non si vede più un’alternativa, è ormai l’ordine naturale delle cose. Gli abitanti di Sderot rappresentano la quintessenza di questo mutamento.

NOMIKA denuncia: i palestinesi sono ormai diventati invisibili,  si è persa la capacità di considerarli come esseri umani, si è persa l’umanità. Per questo, per ridare un volto e una voce a questi fantasmi, abbiamo iniziato a riunirci qui nel kibbutz, per chiamare al telefono le persone che vivono dall’altra parte della frontiera, nella striscia di Gaza. Passavamo anche ore intere a raccontarci tra noi, le paure dei razzi, i morti sotto i raid di Tsahal, le perdite.  Così è nata Other Voice, l’organizzazione che ha creato con altri israeliani che come lei non riescono a vedere il nemico, il terrorista nell’altro.

Ma durante Piombo fuso non c’è stato più spazio per le altre voci. A cominciare da quasi tutti i media che hanno rilanciato la bellicista del governo israeliano.
Racconta sempre Nomika: una sera, nell’orario di primetime in tv ho sentito un abitante di qui intervistato che diceva: non sono mai stato a un concerto ma quando sento il suono delle bombe su Gaza, le esplosioni e le distruzioni, questo è la  musica migliore al mondo.
Mentre le mura di casa tremavano per l’intensità dei bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, mentre io  me ne stavo chiusa pensando a quanti stavano morendo oltre il muro, qui per strada si festeggiava.

Un popolo, che ha subito l’olocausto, aggiunge ancora, non può imporre ad altri le stesse sofferenze. In piena operazione Piombo fuso ho scritto un articolo, pubblicato in 22 lingue, anche in Italia, dicendo che non accettavo quel bagno di sangue in mio nome, per la mia sicurezza. Mi sono attirata gli attacchi di molti qui in Israele, sono isolata nella mia stessa città, racconta, ma aggiunge: in tanti mi hanno scritto ringraziandomi di aver avuto la forza di scrivere le cose che pensano, di essermi vicini.

Nel silenzio attento di tutti i presenti, Nomika ricorda quando, alla fine di Piombo fuso, in America ha ricevuto il premio Niarchos  per il suo impegno. Un premio condiviso con Izzedin Abu al-Aish, un chirurgo attivista pacifista, che a Gaza ha perduto tre sue figlie e un nipote sotto un bombardamento, eppure dopo la guerra si è dedicato a studiare e curare gli effetti della guerra sui bambini palestinesi e israeliani, scrivendo anche un libro sulla sua esperienza dal titolo esplicito, “Io non odierò”. Un incontro che Nomika ricorda con emozione ancora oggi.

La visita al Kibbutz si conclude tra l’emozione di tutti, quando Nomika ci invita a raccogliere il testimone per portare la sua denuncia fuori da Israele: è importante che queste cose siano conosciute fuori di qui, non lasciateci soli, solo così la pace, che oggi è una brutta parola, potrà avere un futuro anche per questa terra.


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