Pussy Riot, non facciamone delle icone Pop

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Due settimane fa la copertina di Der Spiegel, da venerdì quella di Internazionale. In mezzo tanti,tantissimi articoli e servizi tv. I Media occidentali, ma non solo, continuano a parlare delle Pussy Riot. In poco tempo le tre ragazze punk sono diventate icone della libertà di espressione, ma anche nuovi simboli mediatici. Molte rock star internazionali hanno solidarizzato con loro, qualcuna forse più per posa che per convinzione. Come Sting, che dopo aver lanciato appelli pro Pussy Riot, si e’ messo a cantare, dietro lauto compenso per l’anziana sorella del numero uno di Gazprom Alisher Usmanov. Il concerto, privatissimo, è avvenuto in una villa esclusiva in Sardegna, qualcuno dice anche alla presenza di Silvio Berlusconi.

Ma Nadezda Tolokonnikova, Ekaterina Samutsevic e Maria Alekhina non sono show girl. Sono attiviste che si sono opposte al regime di Putin. E’ giusto continuare a parlare di loro, ma senza soffermarsi troppo sulla singola performance, sul loro look, sulla loro bellezza o sul loro stile. Bisogna concentrarsi, piuttosto, sulla pena che dovranno scontare o sul fatto che rischiano di non poter più vedere i loro figli e guardare con attenzione al nuovo appello di Amnesty International. Non occidentalizziamo a tutti i costi il caso e non facciamone un fenomeno Pop.
Continuiamo a tenere alta l’attenzione su questo processo farsa, in tipico stile russo, ma con i toni giusti e le giuste prospettive. Non si tratta di “innamorarsi” di una protesta creativa, di schierarsi “pro o contro”, ma di capire fino in fondo lo spirito di un dissenso drastico e, a tratti, anche violento contro la deriva autoritaria del regime di Putin.


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