Caso Alpi, storia di un depistaggio tutto italiano

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Per la prima volta nel Caso Alpi sono dei giudici a scrivere la parola depistaggio negli atti della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Perugia alla fine del processo di revisione di Hashi Omar Hassan, unico condannato per l’omicidio dell’inviata del Tg3  Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994 da un gruppo di miliziani somali. Tre mesi fa Hashi e’ stato assolto per ‘non aver commesso il fatto’, ma l’assoluzione ha portato con se’ una raffica di  interrogativi. Domande pesanti che il processo conclusosi con l’assoluzione di Hashi per ‘non aver commesso il fatto’ il 19 ottobre scorso a Perugia, ha messo in fila o fatto emergere: domande per il Ministero dell’Interno per la stessa magistratura e per il governo che 20 anni fa spedì in Somalia l’ambasciatore Cassini , il diplomatico che poi “trovò” “Gelle” il testimone  che ha prima accusato Hashi e poi ha fatto marcia indietro. I giudici della Corte d’Appello di Perugia si interrogano  sul ruolo svolto dall’ambasciatore. Quale era esattamente la sua missione?

E ancora. E’ “contraddittoria, del tutto inattendibile e plausibilmente falsa” la testimonianza resa nell’ottobre del 1997 alla Digos e alla Procura di Roma dal somalo  Ahmed Ali Rage, detto Gelle, quando accusò il suo connazionale , ha scritto la Corte facendo riferimento alla ritrattazione delle accuse ad Hashi  fatta da Gelle al microfono della collega Chiara Cazzaniga della trasmissione di Rai3  “Chi l’ha visto?” e alla conferma di quella marcia indietro arrivata successivamente durante l’interrogatorio per rogatoria fatto dalla Procura della Repubblica di Roma in Inghilterra dove vive Gelle. Ritrattazione  che -è bene ricordarlo- Gelle aveva già fatto 15 anni fa durante una telefonata ad un giornalista somalo che aveva registrato tutto! Insomma non può stupire la sentenza della Corte d’Appello di Perugia, che peraltro ha anche bollato come “ondivaghe” le dichiarazioni di un altro testimone, Sid Abdi, l’autista poi deceduto di Ilaria e Miran.

Ma per i giudici di Perugia la questione non si ferma qui : Gelle, i suoi racconti, quelli di Abdi ,non entrarono nel processo Alpi per magia . E su questo capitolo sono molte le cose anomale. La Corte d’Appello di Perugia ne segnala un bel po, in diversi passaggi delle motivazioni. Evocando circostanze a dir poco grottesche sulle quali  è sceso, per anni , e anche di recente, un inspiegabile , inaccettabile e assurdo silenzio. E sono eloquenti .Vediamo cosa scrivono.

Ricostruendo il processo che, a Roma, dopo una assoluzione in primo grado aveva portato ad una condanna di Omar Hashi Hassan in Corte d’Assise d’Appello poi divenuta definitiva, i giudici di Perugia hanno espresso il proprio “sconcerto” sulle modalità di gestione di Gelle , presunto testimone dell’agguato ai due giornalisti italiani, che dopo aver reso le sue dichiarazioni accusatorie durante la fase delle indagini preliminari , non si era presentato ai processi ed era sparito dalla circolazione “senza lasciare traccia “.  I giudici di Perugia scrivono nelle motivazioni della sentenza : “Osserva la Corte come, ancora una volta, ci si trova di fronte a condotte che generano sconcerto: “Gelle” era un teste chiave di un dibattimento che aveva avuto, e che all’epoca ancora aveva, estrema risonanza in relazione alla vicenda sulla quale doveva tentare di fare luce; era stato rintracciato in Somalia, e appositamente fatto venire in Italia con le modalità più volte segnalate, era costantemente sotto controllo dopo che aveva reso le sue dichiarazioni alla Polizia ed al P.M., tanto che dall’ottobre al dicembre 1997 erano state a lui costantemente consegnate somme di denaro per le sue necessità di vita (come risulta dalla documentazione estrapolata dagli atti del dibattimento e prodotta nell’interesse del condannato); e malgrado ciò, di punto in bianco, era scomparso, all’apparenza senza lasciate traccia, eludendo la sorveglianza e senza che risultino essere state effettuate ricerche mirate per cercare di rintracciarlo. Ricerche che proficuamente sono state svolte anni dopo, senza neppure particolare difficoltà, non dalle forze di Polizia ma da giornalisti della RAI che non avevano certo le possibilità investigative di cui all’epoca si disponeva per ricercarlo! Sconcerto che già la Corte di Assise di primo grado aveva chiaramente manifestato nella ricostruirne della vicenda e di cui sopra di è dato conto.

Stupefacente. Ma la Corte di Perugia va oltre. Annota che lo stesso Gelle ritrattando le accuse contro Hashi Omar Hassan  ha dichiarato : “gli italiani volevano chiudere il caso e trovare un colpevole” . Ma vediamo come i giudici ricostruiscono questa circostanza.

Scrive la Corte: “Con riferimento alle sue precedenti dichiarazioni di segno contrario il teste ha dato conto come fosse entrato in contatto con due intermediari di nazionalità somala che gli avevano detto come le autorità italiane volevano “chiudere il caso” e volevano “quella storia”, come cercassero solo qualcuno che raccontasse i fatti e come nessuno sarebbe stato arrestato e come, in cambio della sua collaborazione, sarebbe potuto andare in Italia. Lui che lavorava come autista per gli italiani poteva essere un soggetto credibile, qualora avesse ricostruito i fatti. I due cittadini somali lo avevano messo in contatto con un terzo soggetto dl nazionalità somala, che identifica in “Washington”, e poi con l’ambasciatore Cassini che gli aveva ripetuto le stesse richieste e gli interessi dell’Italia in relazione a quella vicenda che era andata avanti da troppo tempo. Così che lui aveva affermato di trovarsi sui posto al momento del duplice omicidio, circostanza che non era vera”.

Anche le modalità con cui l’autista Sid Abdi alla fine fece il nome di Hassan lasciano interdetti i giudici di Perugia. E infatti aggiungono: “Nella relazione finale della Commissione di inchiesta (la Commissione Parlamentare ndr) emergono con chiarezza i medesimi dubbi e perplessità che avevano indotto la Corte di Assise di primo grado ad assolvere l’imputato; sottolineandosi le anomale modalità attraverso le quali l’ambasciatore Cassini aveva rintracciato il  “Gelle” oltre alle modalità e tempistiche dell’audizione dell’autista Abdi ed il suo improvviso cambio di versione dopo la sospensione della sua audizione e la testimonianza dell’ambasciatore Cassini raccolta nell’intervallo di tempo prima della sua ripresa. Sostenendosi il ruolo “ambiguo” assunto dal Cassini il quale, anche se in buona fede, era stato quanto meno strumentalizzato da cittadini somali”.

Nelle motivazioni di Perugia si parla di ruolo “ambiguo, anche se in buona fede” dell’ambasciatore italiano spedito in Somalia dal governo. E più avanti la Corte d’Appello del capoluogo umbro scrive parole se possibile ancora più chiare: “La versione da ultimo resa da Ahmed Ali Rage, di segno opposto rispetto alle dichiarazioni tese nel 1997, da conto di un soggetto in alcun modo credibile, indipendentemente dalle modalità a mezzo delle quali era entrato in contato con Washington e con l’ambasciatore Cassini ed indipendentemente da chi fosse stato l‘effettivo “suggeritore” della versione dei fatti da fornire alla Polizia, se cioè il nome di Hashi gli fosse stato suggerito dai soli suoi connazionali o anche da parte Italiana al fine di mettere una “pietra sopra” all’intera vicenda ed evitare ogni ulteriore approfondimento del movente che aveva ispirato il duplice omicidio, movente di cui si era occupata la sentenza della Corte di Assise di primo grado ed a lungo la Commissione di inchiesta, senza giungere a soluzioni definitive”.

I giudici del processo di revisione parlando di Gelle aggiungono: “Soggetto che ben potrebbe essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata di cui non era in alcun modo consapevole, essendo all’epoca interessato solo a lasciare la Somalia, tanto da cercare si sfilarsi dall’intera vicenda nel modo più goffo negando, nell’ultima parte della sua deposizione a mezzo rogatoria, anche circostanze pacifiche di cui aveva dato conto nel corso della sua testimonianza avanti alla Polizia ed al P.M. dott. Ionta , ipotizzando come I relativi verbali fossero in parte stati alterati e non riconoscendo come propria la firma apposta sugli stessi. Attività di depistaggio che ben possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate concrete ricerche”.

Uno scenario a dir poco inquietante. Molte le ragioni per non fermarsi nella ricerca della verita’ sulla storia di  un depistaggio  tutto italiano.

Per questo l’avvocato Domenico D’Amati, che rappresenta la famiglia di Ilaria Alpi, ha annunciato che chiederà alla Procura della Repubblica di Roma quali iniziative intenda assumere nei confronti di soggetti italiani che “con la creazione di prove false, hanno dimostrato di voler proteggere gli organizzatori dell’eccidio”. D’Amati ,letta la motivazione della Corte d’Appello di Perugia, prende atto del fatto che adesso non è più solo un’idea della famiglia di Ilaria, dei suoi colleghi, dei legali di parte civile che vi sia stato un intervento per mettere ‘una pietra sopra’ al caso ed evitare ogni ulteriore approfondimento sui moventi dell’agguato a Ilaria e Miran.

Una pietra sopra non l’hanno messa l’Usigrai e la Federazione Nazionale della stampa, e naturalmente i giornalisti del Tg3 , che hanno chiesto l’attenzione delle istituzioni al caso Alpi-Hrovatin (a dicembre il comitato di redazione e il direttore del Tg3 Luca Mazzà sono stati ricevuti dal Presidente del Senato Piero Grasso) . Vittorio Di Trapani, il segretario dell’Usigrai, negli ultimi due anni ha sottolineato più volte che “La Rai Servizio Pubblico ha il dovere di mettere in campo le proprie risorse interne migliori per completare il lavoro di inchiesta giornalistica, per onorare la memoria dell’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e del tele-cineoperatore Miran Hrovatin, uccisi in Somalia perché facevano il proprio lavoro. È un dovere per la Rai per rispettare il diritto dei cittadini di conoscere la verità sui fatti italiani e internazionali– ha sottolineato Di Trapani – per illuminare realtà, fatti e fenomeni che qualcuno vorrebbe relegare al buio, costituire un nucleo di giornalismo investigativo, così come proposto già anni fa da Roberto Morrione… per indagare sul delitto Alpi-Hrovatin ma anche per misurarsi con i misteri e gli interrogativi senza risposte delle stragi – innanzitutto quelle di mafia di cui nel 2017 ricorre il 25° anniversario-“.


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