Libero Grassi, Antonino Scopelliti e l’estate del ’91

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Venti giorni perché si compisse un destino atroce: un destino di morte, di solitudine e di sconfitta dal quale successivamente, ma è bene sottolineare quest’avverbio, per mettere in evidenza le amarezze, l’isolamento e la derisione cui furono sottoposte le due vittime di quella tragica estate, successivamente sarebbe scaturita una reazione civile impensabile fino a quel momento.

Perché Antonino Scopelliti, il giudice calabrese assassinato a Piale mentre stava tornando dal mare a bordo della sua auto, e Libero Grassi, l’imprenditore siciliano che aveva scelto di ribellarsi al pizzo, annunciando pubblicamente la propria decisione, questi due semplici eroi moderni vennero assassinati a venti giorni di distanza l’uno dall’altro: rispettivamente, il 9 e il 29 agosto del 1991.

Scopelliti: un giudice coraggioso, incorruttibile, protagonista di processi delicatissimi come quelli legati al caso Moro, al sequestro della nave da crociera Achille Lauro, alla strage di piazza Fontana e a quella avvenuta il 23 dicembre dell’84 sul Rapido 904; un uomo di legge tutto d’un pezzo, rigoroso e preciso, infaticabile e determinato a battersi con tutte le forze contro il cancro eversivo e criminale, al punto da attirarsi molteplici antipatie e da finire nel mirino tanto di Cosa Nostra quanto della ‘ndrangheta, fino alla tremenda decisione di eliminarlo per cancellarne l’esempio e la meticolosità, lanciando un avvertimento a tutti quei magistrati che, animati dal medesimo fervore, erano intenzionati a fare di lui un modello e ad applicarne i metodi.

E lo stesso discorso vale per Libero Grassi, assassinato affinché la sua ribellione non facesse scuola, affinché non diventasse un punto di riferimento, non venisse seguito e non suscitasse un moto di indignazione collettiva, in grado di spazzare via il muro di omertà, collusione e connivenza sistematica su cui si era retto per decenni lo strapotere mafioso.

Peccato che da allora siano nate associazioni come Addio Pizzo; peccato che oggi la figlia di Scopelliti sieda in Parlamento e si batta, con coraggio e dedizione, in commissione Anti-mafia; peccato che in questi venticinque anni sia cresciuta una generazione determinata ad acquisire quella consapevolezza e quel senso civico di cui parlava Paolo Borsellino, assaporando la bellezza del fresco profumo di libertà e rifiutando il puzzo di certi ignobili compromessi; peccato che la mafia abbia perso moltissimo consenso e che esempi come quelli di Falcone e Borsellino, di don Pino Puglisi e, ovviamente, delle due figure cui abbiamo deciso di rendere omaggio in quest’articolo, a venticinque anni dal loro assassinio, siano diventati patrimonio comune di regioni nelle quali lo Stato, di fatto, è sempre stato latitante o, peggio ancora, complice di interessi criminali che hanno avuto la facoltà di fare il bello e il cattivo tempo, di infiltrare le istituzioni, di pilotare appalti, di controllare il traffico di droga e di esercitare una forma barbara di dominio che è passata dal latifondismo oppressivo degli anni Quaranta e Cinquanta all’affarismo perverso che ha trovato preziosi alleati in organizzazioni opache come la P2 e in gruppi di manovalanza criminale quali i NAR e la Banda della Magliana.

Con ogni probabilità, né a Scopelliti né a Grassi né, meno che mai, a sua moglie Pina, scomparsa qualche mese fa, sarebbe piaciuta la definizione di eroi: e allora, forse, è il caso di rettificare e di chiamarli testimoni, protagonisti, simboli di una battaglia di dignità che ha avuto nel loro sacrificio uno dei momenti peggiori ma, al tempo stesso, un segnale di svolta, un passaggio costitutivo decisivo, in seguito al quale la rivoluzione a lungo auspicata, sognata e costruita faticosamente, giorno dopo giorno, dalla parte sana del tessuto sociale meridionale ha iniziato a concretizzarsi.

Non che siano svaniti i problemi, non che la mafia o la ‘ndrangheta siano state definitivamente sconfitte e smantellate, non che non ci siano più soggetti politici di diretta emanazione di questa piovra ma diciamo che esiste una maggiore coscienza civica e critica e questo è senz’altro merito di figure come quelle di Scopelliti e Grassi, eroiche loro malgrado, benché ritenessero, a ragione, di star semplicemente compiendo il proprio dovere.

È a questa naturalezza che ci aggrappiamo, oggi più che mai, affinché onestà, legalità e riaffermazione della cosa pubblica e dei beni comuni sull’appropriazione indebita e la privatizzazione selvaggia dei medesimi diventino la normalità e non un fatto straordinario per il quale bisogna invocare il miracolo, innalzare il santino o rendere omaggio al martire di turno.

È ciò che sosteneva Scopelliti quando asseriva: “Il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite, solo con la fede cui si è spesso aggrappato come naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso”.

È la base della convivenza umana e l’unico presupposto possibile affinché la nostra società, e le giovani generazioni in particolare, abbiano un futuro.


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