La Suprema Corte tutela le fonti e dichiara illegittimo il sequestro del pc del giornalista

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Con una importante pronuncia, destinata a ribadire alcuni principii fondamentali a salvaguardia della libertà di stampa, la Suprema Corte ha indicato i limiti inderogabili a cui l’autorità giudiziaria deve attenersi quando interviene, con provvedimenti oggettivamente invasivi, nella sfera professionale del giornalista (Corte di Cassazione, sez. VI penale, sentenza 15 aprile – 18 luglio 2014, n. 31735, Presidente Garribba – Relatore De Amicis).

La questione di nomofilachìa autorevolmente affrontata dalla Corte di Cassazione ha definito, così, una delicata vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto un cronista di un quotidiano calabrese, nei cui confronti era stato disposto il sequestro probatorio di diverso materiale informativo (in particolare alcuni documenti con intestazione della D.N.A., il suo personal computer fisso ed il suo net book, oltre a dvd, block notes, pen drive, un lettore mp3, una scheda telefonica, un registratore portatile, cellulari ed un biglietto manoscritto),  nell’ambito di un procedimento penale contro ignoti per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.) e rivelazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.). Il sequestro penale operato presso il giornalista, formalmente non iscritto nel registro degli indagati, era stato ritenuto necessario nel quadro di un’inchiesta volta ad individuare i responsabili della diffusione di alcuni verbali riservati di riunioni tenutesi presso la Direzione Nazionale Antimafia.

La Suprema Corte non ha avuto esitazione nel rilevare l’illegittimità del sequestro a carico del giornalista, come ordinato dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Reggio Calabria e confermato dal Tribunale del Riesame, sulla base di una serie di argomentazioni giuridiche che trovano il loro fondamento nella più consolidata giurisprudenza (fra cui si richiama Cass., sez. VI penale, sent. 31.05.2007 – 31.10.2007, n. 40380 e Cass., sez. II penale, sent. 9.12.2011 – 29.12.2011, n. 48587), secondo cui «il sequestro probatorio disposto nei confronti di un giornalista professionista deve rispettare con particolare rigore il criterio di proporzionalità tra il contenuto del provvedimento ablativo di cui egli è destinatario e le esigenze di accertamento dei fatti oggetto delle indagini, evitando quanto più è possibile indiscriminati interventi invasivi nella sua sfera professionale».

Anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha del resto suffragato in più occasioni tale orientamento, collocando il diritto del giornalista di proteggere le proprie fonti nell’alveo della libertà di “ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche” (Corte EDU, Grande Camera, 14 settembre 2010, Sanoma Uitgevers B.V. e. Paesi Bassi): «una garanzia, questa, assicurata direttamente dall’art. 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo, con la conseguenza che il provvedimento di un’Autorità giudiziaria che dispone il sequestro di materiale posseduto da un giornalista rischia di condurre alla individuazione delle fonti alle quali il reporter aveva garantito l’anonimato, e può costituire una violazione della libertà di espressione garantita dalla Convenzione, pregiudicando anche la futura attività del giornalista e del giornale, la cui reputazione rischierebbe di appannarsi anche in relazione alla possibile attività di acquisizione di ulteriori fonti informative». Un provvedimento di sequestro di questa natura non può essere, perciò, considerato compatibile con la Convenzione neanche nei casi in cui l’acquisizione di documenti in possesso del giornalista possa condurre all’individuazione degli autori di altri reati. Ne consegue – sottolinea la Cassazione – che «qualsiasi ingerenza nel diritto alla tutela delle fonti giornalistiche e delle informazioni atte a condurre alla loro identificazione, per non vulnerare la Convenzione, in quanto “prevista dalla legge”, deve essere accompagnata da garanzie proporzionate all’importanza del principio in questione, e, in primo luogo, dalla garanzia del controllo da un organo terzo ed imparziale, investito del potere di determinare se il requisito dell’interesse pubblico, prevalente sul principio della protezione delle fonti giornalistiche, possa ritenersi sussistente prima della consegna del materiale pertinente, impedendo, in caso contrario, ogni accesso non necessario ad informazioni idonee a rivelare l’identità delle fonti».

Al fine di avvalorare ulteriormente la portata di questa tesi, la Suprema Corte non manca di ricordare come lo stesso Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo nel nostro ordinamento con Iegge 25 ottobre 1977, n. 881, preveda un’ampia tutela per le attività di informazione e ricerca delle fonti, stabilendo, all’art. 19, comma 2, che “ogni individuo ha il diritto alla libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta”. La stessa disposizione, inoltre, prevede, nel terzo comma, che “l’esercizio delle libertà previste al paragrafo 2 del presente articolo comporta doveri e responsabilità speciali. Esso può essere pertanto sottoposto a talune restrizioni che però devono essere espressamente stabilite dalla legge ed essere necessarie: a) al rispetto dei diritti o della reputazione altrui – b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche”.

Anche di recente – si osserva ancora nella decisione in esame – la Corte EDU ha ribadito tali principii, stabilendo che nei casi di ispezione presso abitazioni o luoghi di lavoro appartenenti a giornalisti con l’intento di raccogliere prove o indizi di violazione del segreto professionale, si è in presenza di una violazione della libertà dei giornalisti, protetta dall’articolo 10 della Convenzione, di ricevere o comunicare informazioni (Corte EDU, Sezione V, 20 marzo 2012 – 12 aprile 2012, Martin e altri c. Francia). In tal caso, la Corte di Strasburgo ha stabilito che le perquisizioni nel domicilio e nell’ufficio di un giornalista, il sequestro di supporti informatici e documenti disposti dall’Autorità giudiziaria per individuare la fonte del giornalista che ha chiesto l’anonimato sono in contrasto con tale disposizione convenzionale.

La conclusione a cui perviene, su queste basi, la sentenza n. 31735/2014 della Corte di Cassazione non dà adito ad alcun dubbio interpretativo: «se il giornalista agisce nel rispetto delle norme deontologiche e fornisce informazioni di interesse generale, il suo diritto alla libertà di espressione non può subire limitazioni, quand’anche la sua fonte abbia violato un obbligo di segretezza consegnandogli, o trasmettendogli, documenti riservati o coperti da segreto».
Nella prospettiva ermeneutica seguita dalla Corte EDU ed esplicitamente recepita dalla Cassazione, la protezione delle fonti costituisce “una delle pietre angolari della libertà di stampa”: «non assicurare tale forma di tutela “potrebbe dissuadere le fonti dei giornalisti dall’aiutare la stampa ad informare il pubblico su questioni di interesse generale”, non permettendo ai giornalisti di svolgere in modo effettivo il ruolo di “cani da guardia” proprio dei mezzi di comunicazione di massa».
Rimane, dunque, ponderatamente affidato al giudice il compito di «procedere ad un cauto, ed al tempo stesso rigoroso, bilanciamento fra le contrapposte esigenze rappresentate, da un lato, dal doveroso accertamento dei fatti e delle responsabilità in presenza di accadimenti che integrino una ipotesi di reato, e, dall’altro lato, dalla necessità di preservare il diritto del giornalista a cautelare le proprie fonti, in vista dell’espletamento della funzione informativa, considerata uno dei pilastri fondamentali delle libertà in una società democratica». Nel nostro ordinamento processuale i limiti legali che devono preservare la legittimità degli atti di “interferenza” che l’Autorità giudiziaria è abilitata ad esercitare sono, del resto, chiaramente fissati nell’art. 200, comma 3, c.p.p., in forza del quale il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni solo in presenza delle due condizioni ivi tassativamente previste:

a) che la rivelazione della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede, prendendo a riferimento fatti specifici in ordine ai quali si sviluppa l’attività di indagine, e non semplicemente riconducibili all’astratto nomen iuris;
b) che le notizie non possano essere altrimenti accertate.

Rebus sic stantibus, affinché possa essere legittimamente disposto il sequestro di materiale informativo nella disponibilità di un giornalista – spiega la Cassazione – «non basta un semplice nesso di “pertinenzialità” tra le notizie ed il generico tema dell’indagine, ma occorre che l’ingerenza rispetto alle fonti rappresenti la extrema ratio cui ricorrere per poter conseguire la prova necessaria per perseguire il reato». Non può essere tollerata «una indiscriminata estensione del mezzo di ricerca della prova», che lasci in ombra «sia l’esigenza di una preventiva individuazione della cosa da acquisire a scopo probatorio, sia quella di una chiara e precisa indicazione dello stretto collegamento che deve esservi tra le res oggetto di apprensione ed i reati oggetto delle attività di indagine preliminare».
Non sono accettabili, in altri termini, “interventi a strascico” da parte della magistratura inquirente, vale a dire «rilevanti intrusioni, sia pure a fini esplorativi, nella sfera personale» di attività di un giornalista, «attraverso l’acquisizione di tutto il materiale informatico e cartaceo posseduto ed attinente alla sua professione». Legittimo, al più, può essere ritenuto solo «un provvedimento “mirato”, ossia diretto a soddisfare la tutela inerente alla effettiva necessità di un’acquisizione probatoria, attraverso la compiuta indicazione dell’esistenza di uno stretto collegamento tra la res e le ipotizzate condotte delittuose oggetto d’indagine».

Il procedimento ablatorio nei confronti del giornalista – prosegue la Suprema Corte – «non si sostanzia, a differenza della generalità dei casi, in una diretta ed immediata apprensione, ma presuppone, prima, una richiesta di esibizione». I diritti costituzionali sottesi alla tutela del segreto di cui agli artt. 200 e 201 c.p.p. impongono un modus operandi diverso rispetto alle perquisizioni ed ai “sequestri ordinari” proprio perché «la richiesta di esibizione della cosa deve riguardare un quid espressamente indicato dall’Autorità giudiziaria e che, riconducibile al “corpo del reato o alle cose pertinenti al reato”, abbia una spiccata idoneità alla ricostruzione dei fatti. La res, pertanto, deve essere necessaria ai fini dell’accertamento, poiché la lesione dei diritti costituzionali coinvolti (diritto all’informazione, riservatezza del domicilio e della corrispondenza) non potrebbe giustificarsi se il contributo conoscitivo risultasse aliunde acquisibile». L’art. 256 c.p.p., inoltre, in simmetria con quanto previsto dall’art. 200 c.p.p., stabilisce che, in caso di opposizione del segreto, l’autorità giudiziaria, se ha motivo di dubitare della fondatezza di quanto allegato, provvede agli accertamenti necessari e, se questi danno esito negativo, dispone il sequestro.

Con specifico riferimento alla posizione del giornalista professionista, «cui l’ordinamento assicura la garanzia del segreto professionale non quale privilegio personale, ma quale ineludibile presidio posto a tutela della libera ed incondizionata attività di informazione», deve perciò ritenersi – secondo l’impeccabile monito di questa sentenza – che:

a)      «il rispetto del criterio di proporzionalità tra il contenuto di una misura invasiva della libertà personale di cui egli sia fatto destinatario e le esigenze di accertamento dei fatti oggetto d’indagine costituisca oggetto di un particolare e specifico onere motivazionale da parte dell’Autorità giudiziaria, al fine di evitare quanto più è possibile il rischio di una pericolosa compressione delle forme e modalità di esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato»;

b)      «è necessaria un’accurata motivazione, sia del provvedimento di sequestro che dell’ordine di esibizione, sì da porre in evidenza non solo la presenza del nesso di collegamento tra le notizie ed il tema d’indagine, ma anche lo specifico oggetto dell’apprensione e la necessità delle informazioni desumibili dalla res ai fini dell’accertamento dei fatti».

L’assunto giurisprudenziale appare inequivocabile: la finalità di individuare i responsabili di una “fuga di notizie riservate” non giustifica, di per sé, il ricorso indiscriminato a mezzi di ricerca della prova che mettono a repentaglio le fonti giornalistiche. Non può che essere accolta con assoluto favore questa sentenza della Corte di Cassazione che, nel determinare i criteri di bilanciamento fra valori costituzionalmente sanciti, si eleva a sostegno del diritto-dovere di informazione con lo specifico obiettivo di arginare il rischio di interpretazioni ed applicazioni illiberali del dettato normativo.

(*) Avvocato, esperto in diritto penale dell’informazione


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