Quella legge non uguale per tutti: come un compenso equo diventa condizionato

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Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, a nome della categoria ha fatto quello che i collaboratori freelance e precari attendevano: ha chiesto un autorevole parere per confutare l’incredibile interpretazione del “lodo Treu” sulle condizioni d’inapplicabilità dell’equo compenso agli autonomi.
Il parere pro-veritate dello Studio legale Pessi e associati richiesto dall’Odg riporta in ultima pagina (pag. 10), la seguente comprensibilissima e dettagliata esplicitazione del testo della norma: “Pertanto, anche alla luce della contrattazione collettiva vigente, l’interpretazione volta ad attribuire efficacia estesa a tutti i giornalisti non subordinati iscritti all’albo delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, della L. 233/2012 senza distinzione tra contratti ex art. 2222 e collaborazioni coordinate e continuative, appare l’unica conforme al tenore della stessa.”
Ciononostante, come se niente fosse il testo della delibera che doveva essere “unitaria” diffusa lunedì 27 gennaio, invece di riportare il concetto chiarito dallo Studio Pessi, cioè che la legge 233/2012 sull’equo compenso si applica a TUTTI i giornalisti non subordinati, ribadisce nuovamente e più volte nel documento la sua inapplicabilità agli autonomi, tranne nel caso di “prestazioni che presentino, sul piano concreto, carattere economicamente dipendente e non sporadico.”
È evidente la contraddizione concettuale tra  un compenso che dovrebbe essere equo, per tutti, e che si vuole invece condizionato.

È altrettanto evidente che imporre i due vaghi requisiti indicati, “economicamente dipendente” e “non sporadico”, comporta solo la certezza che i collaboratori sfruttati dovranno continuare a chiedere ad un Tribunale l’accertamento della effettiva natura del rapporto.
La condizione del primo requisito viene anche descritta come segue: “A livello comunitario, la nozione di lavoro economicamente dipendente appare correlata alla situazione in cui il lavoratore autonomo ricava la maggior parte del proprio reddito da un singolo committente che diviene la principale fonte della sussistenza del lavoratore e dei familiari e il fondamentale strumento di estrinsecazione e di sviluppo della sua personalità.” Orsola Razzolini (Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali-132/2011). Ma chi campa a fatica con tre-quattro collaborazioni al mese di quasi pari importo quale può dire sia il suo rapporto da qualificare come “economicamente dipendente”?

Assolutamente opinabile risulta poi una “sporadicità” priva di qualsiasi riferimento concreto: per un quotidiano quanti pezzi l’anno o al mese dovrebbero essere?
Inoltre non solo la limitazione dell’applicazione che si vuole imporre appare chiaramente una distorsione della lettera della legge e della volontà del legislatore, miranti alla tutela del giornalista sfruttato; è evidente che l’effetto di volere ad ogni costo lasciare senza garanzie la maggior parte degli autonomi è del tutto controproducente, a breve e a brevissimo termine.
Se tra giornalisti cococo e quelli con partita iva i primi saranno rapporti economicamente meno vantaggiosi per l’editore, è del tutto evidente che diminuiranno i primi per aumentare i secondi.
Per non incorrere in rapporti in cui l’autonomo risultasse “economicamente dipendente” dall’editore è ovvio poi che l’unica contromisura del datore di lavoro sarebbe diminuire semplicemente l’importo della collaborazione e ricorrere il più possibile a incarichi con partita iva.

La legge di solito è “uguale per tutti”: a quanto pare, per i giornalisti no. Basta farsene una ragione.

* coordinatore Commissione lavoro autonomo regionale Assostampa Sicilia
componente Commissione lavoro autonomo nazionale Fnsi

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