Giornalismo sotto attacco in Italia

Domenico Starnone, destinazione errata. Una travolgente storia di sesso

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Starnone parla chiaro, dice le cose come stanno, e per questo è così amato dal pubblico. È uno scrittore vero, e quindi sa che l’artista, un artista che scrive, deve poter raccontare tutto ciò che ha in mente, altrimenti non sarà più creduto da nessuno, neppure da sé stesso.

Poi naturalmente mente, perché tutta l’arte è menzogna, artificio, illusionismo e quanto più è finzione tanto più riesce ad esprimere il vero.

Nel suo romanzo forse più corposo e sincero, Via Gemito, Starnone aveva abbandonato ogni salvagente, abbattuto ogni steccato di comodo. E sulla medesima strada era andato avanti, da allora, ogni volta più bravo e convincente. C’è chi lo giudica il miglior scrittore italiano vivente, e anch’io non saprei chi altro anteporgli. Ma non ci servono classifiche, godiamo il narratore che ci gratifica del suo talento a ogni nuova uscita, giunto ormai brillantemente alla sua maturità artistica e stilistica.

Qui ci troviamo immersi in una storia di corna, non certo una novità, ma congegnata con garbo sottile, intriso di divertimento e angoscia in ugual misura. Non un intreccio da commedia all’italiana, come potrebbe tradursi in un film, e neppure un ordito boulevardier alla francese, ma una storia di vita autentica di cui ormai lo scrittore è diventato un cantore insuperabile.

Potremmo parlare, sentimentalmente, di ragionamenti d’amore, a favore dell’amore perché contro sarebbe innaturale.

Il protagonista e narratore (io narrante senza nome, quindi l’autore stesso) ha una bellissima moglie, Livia, docente universitaria, che gli ha dato tre figli ancora piccoli e adorati: due femmine, Nilde e Sara e un maschio Giulio di appena un anno. Per mestiere fa lo sceneggiatore cinematografico e lavora spalla a spalla con Claudia, brillante autrice di serie TV di successo, sposata con Alberto, avvocato rampante, e madre di una figlia Abigail, coetanea di Nilde. Le famiglie si frequentano volentieri in uno spirito di cordiale cameratismo. E al cast si aggiunge Carlo, “un vecchio scrittore abbastanza noto che tempo addietro aveva fatto anche un paio di film da regista”, portato dagli amici in palmo di mano. Una figura nota a tutti noi perché richiama infallibilmente alla mente la celebre affermazione di Alberto Arbasino: “La carriera dello scrittore italiano ha tre tempi: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro”.

Bando alle chiacchiere, veniamo ai fatti, cioè alla trama con una partenza folgorante al punto che posati gli occhi sulla pagina si procede senza interruzioni. Forse perché tanti, o almeno non in pochi, ci siamo passati con le debite ma sostanzialmente irrilevanti variazioni.

Viviamo nell’era digitale, degli smartphone e dei messaggi affidati alla Rete. Essendo la moglie fuori Roma per un convegno, il narratore, affannato in casa dietro ai bambini che reclamano di tutto piangendo e gattonando, cade in uno sconveniente quiproquo, inverte i messaggi di riposta alla moglie e alla collega: a Livia che, benché impegnata in un congresso scientifico si prodiga per indicargli dove si trovano i biscotti reclamati dalla figlia capricciosa, risponde con un enigmatico Tea; a Claudia, la co-sceneggiatrice, che lo contatta  al volo per sapere come si chiama l’amante di un certo personaggio dello sceneggiato, risponde ti amo. Un incrocio, un doppio chiasmo, o più banalmente un cross over, niente di così grave: basterebbe un attimo per chiarire la svista, sciogliendola in una risata. Se non fosse che il messaggio incendiario di Claudia gli arriva in un nanosecondo come se la giovane donna stesse attendendo da sempre la sua dichiarazione: “Finalmente ti sei deciso, anch’io di amo”. E sotto i piedi del nostro uomo si spalanca una voragine senza scampo.

Per quale ragione? Il protagonista ci assicura di non aver mai pensato alla sua collega nei termini di una avventura clandestina, di un sexual intercourse come direbbero gli inglesi. Fino a quel momento, pensando a Claudia, aveva in mente soltanto una sorta di nuvola grigia dai tratti sommariamente femminili e per di più sfilacciati dal vento: “Ma, mi resi conto, non ne ricordavo la bocca, il collo, i fianchi, la forma del seno e delle natiche, le gambe. (…) Non avevo mai pensato consapevolmente a lei come a una possibile occasione di piaceri sessuali.”

Parallelamente, e in contrasto, ci informa della sua ammirazione per Livia e infatuazione erotica, invariata, irriducibile, in dodici anni di matrimonio:

“Non esageravo, mia moglie era veramente bellissima. E non lo pensavo solo io che ne ero innamorato, lo pensavano tutti, maschi e femmine. La vidi lì, ad Albaro, tra studiosi abbacinati da quella inattesa commistione di intelligenza buonumore e splendido aspetto. Non avevo mai capito perché s’era lasciata catturare proprio da me, lei di folgorante carriera, io lento, ciondolante, di molte arti ma svagato in tutte, ridotto al grigio lavoro dello sceneggiatore, tra l’altro precario e pagato sempre meno”.

A sua insaputa, con cedimenti progressivi della instabile volontà, si mette in moto un meccanismo inarrestabile innescato da quella secca, incontrovertibile, disarmata risposta al messaggio errato: “anch’io ti amo”. Che induce il maschio a un comportamento plurimillenario, anzi mitologico: quando nel Paradiso terrestre Eva offre quel ‘frutto’ divino ad Adamo, il compagno di giochi non è in grado di resistere e lo mangia. “Amor che a nulla amato amar perdona”. La natura compie il suo corso, come è inevitabile che sia, assolve la sua unica missione, e l’essere umano soggiace al proprio destino sovrannaturale, inesorabile. Non esistono freni e resistenze, e anche il nostro buon padre di famiglia resta intrappolato nella tagliola.

Ancor più perché Carlo, lo scrittore ottuagenario di antica esperienza, invitato a fare due chiacchiere davanti a un bicchiere di vino, a commento delle improvvise confidenze del giovane amico lascia cadere da uomo a uomo un’affermazione sbadata, quasi buttata lì con negligenza mondana, asserendo che l’aveva sempre sospettato, aveva intuito da tempo che Claudia era innamorata di lui. La spinta irreparabile verso il precipizio da parte di un perfidissimo Jago.

Di fronte all’imponderabile lo sceneggiatore scopre d’una tratto nella collega elementi di fascino mai notati, un’avvenenza evidentemente rimossa per precauzione. Moralisticamente vorrebbe sottrarsi a quell’attrazione, ma più si ingegna a spegnere il desiderio, più attizza il furore del fuoco. I messaggi reciproci si moltiplicano insistenti, febbrili, ogni buona intenzione di chiarire l’equivoco si trasforma nell’attesa bruciante di un incontro segreto, in una nuova irresistibile tentazione, che induce a imperdonabili imprudenze. Spinto dall’audacia di Claudia, messi i bambini a letto, li lascia da soli in casa per raggiungere in macchina il domicilio di lei e stringerla tra le braccia, baciarla, sentirla sua, frugarla. Ma i sensi di colpa lo straziano, lo macera la paura di avere un incidente d’auto e non poter far ritorno dai figli. L’eventualità di una telefonata della moglie che scopra la tresca, lo ricolma di ansie; ma al contempo si esalta per l’avventura insperata, irrinunciabile; troppo violenta è l’emozione per l’innamoramento ritrovato dopo anni di onesto tran tran familiare. I sentimenti contrastanti si intorbidiscono nella voglia non più rinviabile; la vita urla le sue ragioni, il vicendevole desiderio li tiene sui carboni ardenti, mettersi alla ricerca di un posto sicuro in cui godersi liberamente, si trasforma in un assillo lacerante. Tutto il turbinio dei pensieri, dei pro e i contro, delle menzogne, dei vili trabocchetti che facciamo a noi stessi, delle infinite elucubrazioni su come riparare al malfatto, indugiano sullo stesso piano dei progetti più avventati per smemorarsi in quell’improvviso ritorno all’Eden. La tirannia dei sensi, si accavalla irresponsabilmente nella mente dell’uomo assuefatto a dominarsi nella realtà di ogni giorno, compensando l’inconscia mancanza con l’invenzione di trame da quattro soldi per spettatori annoiati. Persino i trascorsi di gioventù con i loro fantasmi oppressivi, i loro spettri minacciosi, tornano ad angustiarlo, e la vita quotidiana, già resa ingarbugliata dai tre pargoli da accudire, le scuole, gli asili, le baby sitter, si trasforma per lui in un inferno da cui agogna soltanto di evadere, alla disperata ricerca per un’ora, una notte senza più controllo accanto a Claudia. Il desiderio costante, insidioso perché non riesce a soddisfarsi, cresce a dismisura in entrambi.

Scriveva Esiodo nella Teogonia, duemilasettecento anni fa:

Una forza primordiale alla quale neppure gli dei sanno resistere, scioglie le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini fiacca nel petto la mente e il saggio consiglio».  

Ieri come oggi il fardello di angosce appare a tratti tormentoso quanto la ricerca del piacere. Perché riguarda l’uomo sapiens, è parte inscindibile della cultura, della civiltà, delle regole, il lecito e l’illecito, la morale, gli affetti, il denaro, il sistema etico. Costituisce la nostra sovrastruttura, la nostra armatura, in cui l’Io preferibilmente annega. Dal momento che la spinta propulsiva originaria è ben più forte, una condizione che lo scrittore Starnone, attraverso il suo alter ego, commenta così:

“Ma l’intestino, l’apparato urogenitale, le braccia, le mani, la bocca, i denti, la lingua, si sarebbero davvero acquietati con i sermoni? O non avrebbero collaborato piuttosto, tutti insieme, forsennatamente, come in effetti stavano facendo da sabato fino a questo giovedì, per fottersene dell’impalpabile io chiacchierone che crede sempre di essere a un drammatico bivio, quando invece non c’è nessun bivio, si obbedisce al corpo, e sennò a chi?”

In attesa di scoprire come il nostro eroe ne uscirà, sarà forse opportuno sdrammatizzare con una battuta salace, l’aforisma spietato attribuito al grande Alexandre Dumas (figlio): “Il matrimonio è una catena talmente pesante che per portarla bisogna essere almeno in tre”.


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