Storicamente le guerre scaturiscono da cause economiche, da “esigenze” di dominio (territoriale, ideologico, religioso, etnico…) e, anche, da motivi interni, maturati soprattutto come crisi che si spera di risolvere inventando o affrontando un nemico esterno. Va sottolineato che i rischi di guerra aumentano in misura esponenziale nei periodi di transizione, di collasso di un “sistema” e, ancora, coi mutamenti demografici, ambientali, tecnologici. Oggi viviamo in una fase in cui tutti questi fattori, sommariamente elencati, coesistono, e producono un singolare effetto moltiplicatore che rende lo scenario generale spaventoso non solo per la potenza distruttiva delle armi, per la concatenazione dei disastri che si annuncia, ma, soprattutto, per la crisi dell’umanità in quanto tale, dilaniata dalla atavica sete di potere e, nel contempo, da inediti problemi di pura “salvezza identitaria”. In altri termini, specialmente nel mondo occidentale, siamo chiamati a fare i conti con una ulteriore difficoltà, derivata dal non sapere più riconoscere gli orizzonti del “chi siamo”, come individui e come gruppo (umano) di esseri viventi che rischia di perdere lo scopo stesso della sua sopravvivenza.
Spie evidenti di questo stato particolare sono i pensieri “corti”, cortissimi, altamente prevalenti; e la conseguente scarna riflessione “globale” di prospettiva futura, manifesta anche in individui storicamente dediti a questo compito: scrittori, filosofi, pensatori, intellettuali.
È su questo terreno che matura l’idea della guerra come scopo e non (solo) come mezzo per conseguire un obiettivo di conquista, di rinsaldamento del potere, o un vantaggio economico. Il pericoloso mix “esistenziale”, strano e irto di incognite, fa, molto probabilmente non per caso, capolino nell’epoca delle straordinarie potenzialità tecnico-scientifiche che, per la prima volta, consentono azioni manipolatrici di massa senza precedenti. Oggi è perfino possibile cambiare la storia, o comunque la sua narrazione, da un giorno all’altro, a piacimento; e non serve il richiamo orwelliano per comprendere la portata di questa possibilità.
Gli esempi pratici possono essere infiniti, ma il caso eclatante su cui abbiamo il dovere di soffermarci a riflettere noi europei riguarda senz’altro proprio la storia del Vecchio continente: innanzitutto perché ci investe direttamente; in secondo luogo perché è proprio dalle nostri parti che la transizione si effettua con i ritmi più intensi. Non deve perciò stupire più di tanto che un ministro della Repubblica italiana, peraltro solitamente tra i più sobri e moderati, veda l’azzurro della bandiera europea semplicemente come il colore del “manto della Madonna” (sic!) costellato dalle dodici stelle rappresentanti le tribù di Israele. Una visione mistica, non certo sostenibile pienamente sul piano storiografico, ma soprattutto limitativa e limitante. Dannosa sul piano pratico quanto le ripetute azioni che hanno visto facinorosi bruciarla quella bandiera. Ma si tratta tuttavia di una declinazione emblematica. A cosa può infatti servire una simile “visione” parziale? Probabilmente a scandire una identità perduta nella sostanza. L’Unione, nata come strumento di coesione e di pace continentale, con prospettive planetarie, è infatti drasticamente ridimensionata e posta di fronte alla scelta del riarmo senza quasi possibilità di reagire. Un aspetto, quest’ultimo, che, anziché rafforzarne il processo unitario come ancora sostengono alcuni europeisti ottimisti, in realtà ne snatura le fondamenta. Questo riarmo imposto da un vago quanto conclamato stato di belligeranza planetaria di cui il Vecchio continente è protagonista passivo e impotente, se proprio ritenuto necessario, avrebbe avuto una sua ragion d’essere se fosse sorto su un progetto europeo e non “per singoli stati” e su imposizione esterna.
In questo modo, infatti, si impoverisce ulteriormente la già precaria situazione economica all’interno dell’Unione e soprattutto si instaura una paurosa crepa fra i vari Stati che potranno riarmarsi in base a singole disponibilità economiche.
Facile prevedere che l’auspicata pacificazione dei popoli europei sarà messa a dura prova o quanto meno scandita dai paesi economicamente e militarmente più forti (Francia, Germania) e in grado di influenzare alleanze “localistiche”. Aumenteranno, di conseguenza, sia gli effetti entropici sia quelli distopici. Le grandi potenze esterne, in questo scenario ottengono il risultato auspicato di dividere l’Europa e renderla facilmente “addomesticabile” o comunque di porla nella sola condizione di assoggettarsi (unitariamente o, peggio ancora, a ranghi sparsi) all’orbita dei grandi competitor internazionali. Le politiche recenti di Putin e di Trump riguardo la guerra in Ucraina, le politiche dei dazi, i canali di distribuzione delle materie prime, lo stesso commercio degli armamenti sono segnali di una chiarezza esemplare al riguardo. Gli effetti a livello mondiale, di contro, non risultano tutti esattamente prevedibili per il medio periodo. Possiamo per ora solo interrogarci se esistano alternative a questa situazione.
Come spesso accade per gli individui, le risposte vanno innanzitutto cercate all’interno. In questo caso all’interno della stessa Europa, paradossalmente pervasa da vari “sovranismi”. Ma con questo termine, sovranismo, intendiamo il poter andare a ranghi sparsi, per singoli stati, o ci riferiamo alla capacità di stringerci in un forte patto europeo? I pareri, al riguardo, sono vari, disarticolati e confusi, in quanto le classi politiche “democraticamente elette” appaiono sottoposte a influenze esterne per motivi economici, ideologici e, oggi, anche tecnologici. Resta pertanto il dubbio se l’Europa oggi possieda la capacità di esprime una volontà popolare propria o possa solo adagiarsi a volontà più forti. Essere cioè spettatrice passiva della sua stessa trasformazione. Lo spauracchio del nemico alle porte (cinesi, russi, islamici, immigrati in genere), sotto tale aspetto, non costituisce affatto un elemento colloidale, ma piuttosto rappresenta, la misura della debolezza, della dipendenza dalle dinamiche esterne, perché chi è forte non teme i rapporti di vicinato, né le immigrazioni, ma le accoglie come risorsa e occasione di rilancio.
Riarmo, dunque, come sintomo di paura. E la paura è da sempre uno strumento di dominio, e un veicolo di conflitto. Ma il riarmo europeo in realtà avverrà, per sovrammercato, a geometrie variabili, in totale assenza di ogni egida “riunificatrice”, e in modalità fortemente umiliante per gli Stati che si trovano a dover fare i conti con un debito pubblico altissimo e condizionante. Questi ultimi si troveranno di fronte a un baratro incolmabile rispetto agli Stati della stessa Unione che potranno invece ricorrere al debito e costruire formidabili eserciti. Chi misurerà, poi, l’efficacia, l’efficienza, il limite, la sostanza di quella spesa del 5%? Gli stessi Stati? L’Europa? Un altro organismo sovranazionale? Con quali criteri?
Le armi dovranno essere importate o prodotte in loco? Con quali conseguenze sugli effetti politici e strategici? Un nuovo, enorme, debito comune europeo (che dovrà comunque essere restituito) per piani nazionali di difesa è davvero la via d’uscita auspicabile di fronte allo scenario delineato a grandi linee in questa sede?
Infine, oggi si tende molto semplicisticamente a sovrapporre NATO ed Europa. L’unico vero collante rimasto sembra essere appunto l’esercito euro-atlantico. Ma siamo certi che gli interessi dei due continenti coincidano. almeno in buona parte? La visione del mondo di Trump è davvero la stessa dell’Europa? E, soprattutto, gli interessi sovranisti dell’America (oltre che di Russia e Cina) sono compatibili con gli interessi sovranisti dei paesi europei? La Germania, in questo quadro, si riarmerà per l’Europa intera o per se stessa?
Domande a cui occorrerebbe porre la massima attenzione perché si fondono in questo quadro inquietante dove la frantumazione effettiva dell’Europa potrebbe costituire il prerequisito del nuovo, parziale, equilibrio mondiale.