Non è una considerazione originale. Esistono plurisecolari filoni di pensiero che considerano la guerra come ineluttabile: un dato naturale che “serve” alla dinamica del progresso umano. Questo concetto era stato scalfito dopo la fine della seconda guerra mondiale con la presa d’atto della forza distruttrice delle bombe atomiche e di altre armi di distruzione di massa. Ma la “paura” istintiva è stata subito affiancata dalla convinzione che la pace si potesse realmente conseguire solo attraverso un equilibrio del terrore e con una quotidiana opera di “polizia internazionale” condotta dalle grandi potenze, quella americana in primis, contro obiettivi spesso asimmetrici: gli stati “canaglia”, le dittature (non tutte) accusate di armarsi o di ospitare e sostenere terroristi. Nessun diritto internazionale è mai parso efficace o applicabile al riguardo poiché, nell’era della conquista spaziale a scopi militari, dietro queste azioni si celavano, sovente, le opache dinamiche economiche e finanziarie che chiedono sempre nuovi mercati in nome di una “crescita” trasformata da mezzo per garantire un benessere diffuso a puro strumento amplificatore delle nuove abissali diseguaglianze che attanagliano un mondo dominato dall’indebitamento.
Se, per ora, la guerra mondiale in corso si mantiene entro i binari delle pur potentissime armi convenzionali, giustificata come operazione di difesa, “di pace”, o addirittura azione di sopravvivenza di uno stato minacciato dall’integralismo… resta il fatto che si sta sempre più assottigliando il margine che divide la quotidiana belligeranza dalle logiche di sterminio totale. Il quadro è reso più inquietante dalla crisi ambientale in atto, peraltro negata per non mettere in crisi un sistema economico ormai insostenibile su scala planetaria, foriero di cambiamenti profondi e repentini a livello demografico, tecnologico, geopolitico, oltre che climatico. Dunque guerre. Sempre più numerose, estese, spietate e disumane per l’impatto tragico su incolpevoli e inconsapevoli popolazioni civili. Conflitti cruenti, condotti secondo la “legge del più forte” e ispirati da oscuri gruppi di potere che neppure si preoccupano ormai di giustificare le loro scelte.
Concetti come democrazia, libertà, diritti dei popoli in simili temperie risultano privi di qualsiasi contenuto e non possono supportare nessuna spinta ideale che non sia l’odio per il “nemico” o l’avidità di arraffare, tipica dei momenti “finali”. La guerra, in simili contesti, da mezzo diventa fine: motore delle ultime fasi di uno “sviluppo” ormai incontrollabile; strumento per “risolvere” questioni finanziarie, produttive, economiche e perfino sociali. Non si tratta più di appianare storiche contese fra popoli ma, come in un film distopico, si lotta per accaparrarsi le ultime risorse a livello tribale. Siamo cioè all’escatologia apocalittica che si materializza come da ancestrale profezia.
Le cause profonde di questa situazione ormai incontrollabile, rispetto alla quale ognuno si sente impotente, sono forse in parte individuabili nel progressivo isolamento delle persone schiavizzate da perniciose logiche consumistiche e private di ogni riferimento culturale e prospettico tramite tecnologie verso cui non solo non abbiamo nessun tipo di controllo, ma neppure possibile modalità di difesa. Non ci sono analisi complete e valide al riguardo; resta però inoppugnabile il fatto che il primo passo verso questo nuovo stato di scontro permanente è consistito nell’inoculazione della paura e della diffidenza verso il prossimo. Stroncata ogni forma di associazione, ogni idea di mutuo soccorso, si è proceduto alla istituzionalizzazione della solitudine, oltre che alla messa al bando di qualsiasi forma di apprendimento, di scuola, di relazione (diplomatica). È su questo terreno, ripiombato in pochi decenni in un allucinante “stato primordiale”, che trionfa la logica della guerra come elemento naturale e irrefutabile.