“Quando due elefanti combattono, a farne le spese sono i fili d’erba” afferma un proverbio africano. Nel caso di Sudan e Sud Sudan, gli elefanti in lotta sono i rispettivi gruppi di governo in sanguinosa guerra al proprio interno. Ma l’escalation armata di questi conflitti “civili” rischia con maggior drammaticità di riaccendere scontri regionali che in tempi non lontani hanno infiammato il Corno d’Africa.
I rapporti tra Khartoum (capitale del Sudan) e Juba (sede dell’esecutivo del Sud Sudan) restano tesi, nonostante gli accordi di pace del 2005 e la secessione del Sud Sudan nel 2011 dopo decenni di laceranti guerre. A dividere le due nazioni restano dispute sui confini e sulle relative entrate petrolifere, condite da vicendevoli accuse di sostegno a gruppi ribelli. I due paesi condividono il cancro della corruzione sistemica e l’assenza di governi autorevoli che spianano così la strada alla debolezza delle istituzioni con il rischio che le armi riprendano a crepitare. Sudan e Sud Sudan stanno per implodere con il rischio di riaprire il vaso di Pandora in grado di inondare il continente di quelle malvagità già ampiamente conosciute.
Da quasi due anni il Sudan è squassato da un conflitto interno che ha causato 12 milioni di sfollati, 3 milioni e mezzo di rifugiati nei paesi limitrofi e una crisi alimentare che colpisce 26 milioni di persone. È la più grande crisi umanitaria in corso, la cui entità è oscurata dalle conseguenze dei conflitti in Ucraina e Palestina: gli impegni della comunità internazionale sono infatti rivolti altrove.
A fronteggiarsi sono l’esercito della giunta militare (SAF) guidata dal generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido (RSF), composte da paramilitari agli ordini di Mohamed Hamdan Dagalo. I combattimenti coinvolgono la capitale ma anche la regione del Darfur settentrionale e le aree al confine con Libia e Ciad. Anche se l’esercito a marzo ha riconquistato il palazzo presidenziale, Khartoum difficilmente l’avanzata dei governativi segnerà una stasi del conflitto tra due leaders interessati soltanto a riaffermare il controllo su una nazione ricchissima di risorse naturali che fanno gola a tantissimi attori, dall’Egitto alla Russia, ai paesi del Golfo.
Intanto anche il Sud Sudan danza sul baratro della guerra civile, sempre strisciante in questi 14 anni di faticosa indipendenza. Il presidente Salva Kiir (dell’etnia maggioritaria dei Dinka) si è alleato con l’Uganda per combattere gli insorti della città di Nasir, nella regione dell’Alto Nilo, che facevano capo al vicepresidente Riek Machar (di etnia Nuer, secondo gruppo del paese). 50 mila gli sfollati.
Kiir e Machar non hanno mai condiviso il potere nel governo, nonostante i numerosi accordi. Eppure, ambedue fanno parte dello stesso esecutivo ed addirittura dello stesso partito, il Movimento Popolare di Liberazione del Sudan (SPLM), anche se la corrente di Machar è chiamata SPLM in Opposizione (SPLM-IO). Anche questa volta si è ripetuto un vecchio copione: l’arresto ai domiciliari di Machar e di sua moglie Angelina Teny, ministro degli Interni.
La rivalità tra i due leaders è di antica data. Due anni dopo l’indipendenza, ci fu un durissimo scontro che sfociò in 3 anni di guerra civile. Dal 2015 al 2018 si registrarono almeno 383 mila morti con una carestia che si abbatté su sei milioni di persone.
Uno scambio di accuse serrato. Machar imputa a Kiir di governare con metodi autoritari finalizzati alla sua estromissione dall’esecutivo; il presidente controbatte che il suo vice soffia sul fuoco della ribellione per controllare le sue roccaforti, il cui sottosuolo è ricco di petrolio.
A preoccupare è però la presenza sulle aree contese delle truppe ugandesi (attive nella repressione) inviate dal presidente Yoweri Museveni su richiesta di Kiir. Il preponderante ruolo dell’esercito di Kampala mette a rischio la vita dei civili e la stabilità dell’area con il rischio di innescare una crisi armata regionale. Pende sul capo di tutti un pericolosissimo effetto domino che può esondare al di fuori dai confini travolgendo tutto.
I due contendenti continuano a fronteggiarsi. Machar non è disposto a togliere il suo appoggio ai ribelli, mentre il capo delle forze armate ugandesi promette la morte per tutti i rivoltosi.
Sudan e Sud Sudan rischiano di ritirare fuori le sciabole, ma sarà difficile per tutti ignorare il loro mortale tintinnio.
Fonte: rivista mensile CONFRONTI, n. 5 – maggio