“A Gaza sono stati uccisi più giornalisti in un anno e mezzo che in tutte le guerre mondiali, in Vietnam, nei Balcani e in Afghanistan messe insieme. Erano tutti palestinesi.”
Inizia così un appello firmato da 175 giornalisti italiani e pubblicato questa mattina su “Repubblica”. È promosso dal gruppo “Pace e Giustizia in Medio Oriente” e si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica sui silenzi che gravano intorno ai massacri di Gaza. E intorno al massacro di giornalisti.
“Duecentotrenta colleghi e colleghe assassinati – forse di più – mentre indossavano il giubbotto con la scritta PRESS. Uccisi insieme alle famiglie, ai figli, ai loro sogni e alle loro speranze di pace.”
Non sono effetti collaterali ma una precisa strategia dell’esercito israeliano perché non ci siano testimoni, non ci siano occhi, penne, microfoni e telecamere a registrare i crimini contro l’umanità perpetrati a Gaza.
Assassinii mirati per silenziare i testimoni, per cancellare l’informazione sull’invasione e sull’assedio nella striscia.
La reazione alla strage di giornalisti non è stata adeguata al numero dei morti. Anche questo elemento è rilevato nell’appello: lo sdegno non è stato unanime.
È in gioco il ruolo del giornalismo, la sua funzione di dare notizie, informare sui fatti, suscitare pensiero critico nell’opinione pubblica. Il silenzio fa comodo a chi vuole che i crimini contro l’umanità, che i crimini di guerra rimangano impuniti. Ma è un diritto costituzionale, quello sancito dall’Articolo 21, pretendere una informazione libera. È un diritto dei giornalisti poter fare il loro lavoro, è un diritto dei cittadini pretendere informazione.
“Ogni verità omessa rende complici” scrivono i firmatari dell’appello.
È ora che la comunità internazionale obblighi Israele a fermare il suo assedio e ad impedire altre migliaia di morti per fame e per bombe. È ora che la comunità internazionale obblighi Israele a consentire che i giornalisti di tutto il mondo possano entrare a Gaza e testimoniare.