Il nuovo libro di Borrometi è una corsa tra persone e luoghi chiave della nostra storia nazionale

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Salvatore Giuliano. Il golpe Borghese. Via Fani e via Caetani a Roma. L’orologio della stazione di Bologna fermo sulle 10 e 25. Lo scoglio dell’Addaura. E ancora Capaci, via D’Amelio. Luigi Ilardo. Poi Provenzano e, infine, Messina Denaro.

Il nuovo libro di Paolo Borrometi (il precedente è Un morto ogni tanto, Solferino 2018) si legge al galoppo: è una corsa angosciante tra persone e luoghi chiave della nostra storia nazionale. È un riepilogo e una sfida al contempo.

Molte cose scritte in queste pagine intense e sofferte le sapevamo. Alcune no.

Offrire una sintesi di questo volume – quindi – non è per niente facile.

Tre elementi restano impressi nella mente del lettore e sono i tre pilastri decisivi per la democrazia. Colonne portanti della nostra vita, che vorremmo libera, serena e dignitosa.

Ma tra noi e quei connotati si mettono potentissime forze che cercano di abbattere quei piloni.

Il primo: la libertà di manifestare il proprio pensiero. A questa libertà annettiamo la cronaca, la critica, la ricerca storica, il giornalismo serio e la denuncia dell’immondizia del mondo.

Chi ne sa di diritto costituzionale dice spesso che quella di espressione è la pietra angolare di tutto l’edificio delle libertà. Senza il diritto di informare e di essere informati e senza la libertà di gridare il proprio dissenso e il proprio scandalo di fronte ai potenti, una democrazia è precaria e fasulla.

Quindi è importantissimo che i cronisti indaghino con scrupolo e che avvertano l’opinione pubblica dei fatti più gravi e oscuri.

Questa libertà sta nell’art. 21 della Costituzione ma esercitarla costa caro. Borrometi – purtroppo – lo sa bene. Lo sanno bene Saviano, Berizzi e molti altri. A Mauro de Mauro, a Giancarlo Siani e a Giuseppe Alfano non possiamo più chiedere.

Il secondo pilastro del libro è la consapevolezza della saldatura tra eversione terroristica (prevalentemente – ma non esclusivamente – nera) e mafie.

La strategia della tensione dalla fine degli anni 60 dello scorso secolo fino agli anni 90 vede sempre la partecipazione di mafiosi e terroristi eversori.

Per il golpe Borghese del 1970 (poi non portato a termine) fu chiesto l’aiuto destabilizzatore al clan Madonia di Palermo (lo ha confermato il pentito Calderone innanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia nel 1992). Antonio Nirta (boss ‘ndranghetista dei Nirta-Strangio, sul versante ionico della provincia di Reggio Calabria, nemici dei Pelle-Vottari) è sul posto quando viene rapito Aldo Moro.

L’ideologo fascista Concutelli – assassino del giudice Occorsio nel 1976 – è detenuto negli anni 80. Il neofascista Mangiameli e Valerio Fioravanti tramano per farlo evadere. In questo ambito, Fioravanti è ipotizzabile che abbia eseguito l’omicidio di Piersanti Mattarella il 6 gennaio 1980 (lo ha riconosciuto nell’identikit Irma Chiazzese, vedova di Piersanti). Un favore alla mafia che verrà compensato con l’effettiva fuga di Concutelli dal carcere. Lo narra anche Giovanni Grasso (portavoce del Presidente della Repubblica, nel suo Piersanti Mattarella, da solo contro la mafia, San Paolo-Corriere della Sera, 2020). Poi Fioravanti ammazzerà Mangiameli perché sapeva troppo. Concutelli invece è morto solo qualche mese fa.

Insomma: mafie e violenza eversiva marciano sempre assieme nella storia repubblicana, impregnando di sangue gli stracci su cui i servitori dello Stato più fedeli, innovatori e lungimiranti scivolano rovinosamente. Se non si capisce questo assunto, se esso cade nell’oblio, la democrazia perde qualità e senso.

E veniamo al terzo pilastro, quello che in sostanza dà il titolo al libro: gli apparati dello Stato.

I principi di democrazia pluralista, di tutela dei diritti umani e la buona amministrazione devono poter contare su tecnocrazie efficienti e saldamente ispirate dai valori costituzionali. Magistrati, prefetti, funzionari ministeriali, carabinieri e poliziotti devono essere competenti e servire le istruzioni democratiche. Molti lo hanno fatto e c’hanno rimesso la pelle.

Molti altri purtroppo no: delle istituzioni si sono serviti o – peggio – le hanno asservite a poteri criminali (sarebbe importante, al riguardo, rileggere Luciano Violante, L’Italia dei poteri illegali, nel volume collettaneo a cura di Neppi Modona, Cinquant’anni di Repubblica italiana, Einaudi 1998). Questi funzionari dello Stato vengono meno al senso stesso del loro ruolo e divengono traditori. Borrometi usa il vocabolo in senso tecnico (non retorico o evocativo).

La sicurezza è che il campionario – da questo punto di vista – è molto ampio. Minori certezze, purtroppo, offrono invece le decine e decine di processi penali che si sono interessati di questi soggetti, spesso lasciandoli in un limbo, esente da responsabilità penali ma irto di interrogativi storici e morali.

Borrometi comincia con la singolare morte di Salvatore Giuliano, il criminale dalla briglia sciolta, che aveva eseguito per conto delle baronie mafiose la strage di Portella delle Ginestre (1° maggio 1947). La vicenda è raccontata – tra gli altri – anche dal giornalista del Corriere della sera Marco Nese (Sotto il segno della mafia, Rizzoli 1975). Sono incaricati della cattura di Giuliano un colonnello e un capitano dei Carabinieri, Ugo Luca e Antonio Perenze.

A uno Stato sano, che volesse non solo punire l’autore della strage ma anche sapere chi fossero i suoi mandanti e come smantellare le famiglie mafiose, Giuliano servirebbe vivo. Invece, il bandito muore ammazzato la notte sul 5 luglio 1950. Luca e Perenze danno a intendere che i carabinieri hanno dovuto rispondere al fuoco e stenderlo all’istante. Peccato che nella pozza di sangue – non lontano dal Palazzo Di Maria a Castelvetrano (altra città simbolo nel libro di Borrometi) – Giuliano giace in canottiera e senza orologio, quasi che fosse stato tirato giù dal letto già esanime. Successivamente, giornalisti più seri avanzeranno due ipotesi: l’ha ucciso nel sonno Gaspare Pisciotta (un pentito ante litteram che ha fatto confidenze alle forze dell’ordine e ha attirato Giuliano in trappola) o addirittura Luciano Liggio, rampollo emergente dei corleonesi. Luca e Perenze si sono prestati alla messa in scena: non pagheranno nulla, saranno anzi promossi, l’uno generale e l’altro colonnello.

Borrometi poi percorre il viale arcinoto della strage alla Banca dell’agricoltura del 12 dicembre 1969 e della successiva morte di Pino Pinelli, che volò da una finestra in questura a Milano. Onnipresenti in questa storia fosca sono tre funzionari dello Stato. Federico Umberto D’Amato (capo dell’ufficio affari riservati del Ministero dell’interno, che sarà cacciato dal Ministro Paolo Emilio Taviani, anche se troppo tardi); Salvatore Russomanno (collaboratore di D’Amato) e Marcello Guida (questore di Milano). Tutti e tre fabbricano ad arte la pista anarchica (che porterà alla morte atroce dell’innocente Pinelli) e ritardano le indagini nei confronti dei veri responsabili (ne sappiamo anche da Miguel Gotor, Generazione settanta, Einaudi 2022).

Quanto alla strage di Bologna, Borrometi racconta del ruolo molto ambiguo di Ugo Sisti, il procuratore della Repubblica del capoluogo. Pur sempre assolto da accuse di favoreggiamento, Sisti era molto amico di Aldo Bellini, padre di Paolo, personaggio coinvolto nella strage su cui proprio lui doveva indagare. E risulta aver frequentato lo stesso Paolo assiduamente. Una successiva sentenza a carico di Gilberto Cavallini (altro responsabile della strage di Bologna) esprimerà sulla condotta di Sisti un giudizio pesantissimo. Tutta questa vicenda è raccontata anche da Paolo Morando (La strage di Bologna, Feltrinelli 2022).

E veniamo agli uomini che Cosa nostra ha sempre temuto di più e che i mediocri e i pavidi hanno sempre detestato. Falcone e Borsellino avevano nemici fuori dallo Stato perché non erano ricattabili ed erano intelligentissimi; ma li avevano anche nelle istituzioni – magistratura compresa –  perché erano più svegli e laboriosi, servivano le istituzioni anziché servirsene (è famosa la frase di Falcone, quando spegneva la luce la sera in ufficio per andarsene a casa: “Togliamo il disturbo allo Stato”).

Nel giugno 1989 il tritolo per Falcone è già pronto. Deve scoppiare di fronte alla villa siciliana che prende in affitto, a pochi chilometri da Palermo, in località Addaura, sul mare. La sera del 20 giugno 1989 Falcone ospita colleghi svizzeri (Del Ponte e Lehmann) e li invita a fare un bagno dagli scogli per l’indomani. Per puro caso gli agenti della scorta notano un borsone appoggiato sulla roccia. Avvisano Falcone, i cui piani saltano immediatamente. I mafiosi sono stati sprovveduti a lasciare la borsa in un punto troppo visibile; ma, incredibilmente, gli uomini dello Stato fanno peggio: sul posto viene inviato un artificiere dei carabinieri, che fa brillare l’ordigno in modo talmente goffo e frettoloso che sarà impossibile svolgere analisi sul tipo e sulla provenienza del dispositivo e dell’esplosivo. Il presidente della Commissione antimafia della legislatura 2008-2013, Giuseppe Pisanu, sosterrà che l’artificiere Tumino è solo maldestro e combina guai involontariamente. Ma se fosse così, chi ha mandato un novellino a svolgere un compito così delicato?

Per l’incertezza che circonda l’episodio, da più parti si leva l’ignobile vocio che Falcone abbia simulato egli stesso un attentato a proprio carico. E’ cominciato l’assedio, di cui parlerà anche Giovanni Bianconi nel suo libro (Einaudi, 2017). Finirà solo il 23 maggio 1992, a Capaci.

Concluso l’assedio a Falcone, inizia quello a Borsellino. A fine giugno 1992, Paolo Borsellino sta tornando da Roma in aereo ma a Fiumicino l’imbarco è ritardato. Se ne chiede il perché. La risposta gliela fornisce casualmente il Ministro della difesa in carica, Salvo Andò, pure lui siciliano: stanno facendo controlli di sicurezza rinforzati, perché si teme un attentato ai danni del magistrato. Il giorno dopo, infuriato, Borsellino si precipita dal procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Giammanco e gli chiede conto del perché non lo ha avvisato del pericolo che egli correva e delle conseguenti decisioni degli incaricati della sua sicurezza. Giammanco blatera che compente era Caltanissetta e che lui aveva avvisato i magistrati nisseni. Qui il tradimento non è solo istituzionale ma anche personale.

Così come traditori in senso genuino sono tutti quelli che ordiscono il depistaggio sull’attentato di via D’Amelio del 19 luglio 1992. Borrometi giustamente lo definisce il più grave della storia. Viene arrestato tale Vincenzo Scarantino che confessa dopo molte settimane e chiama in correità una serie di personaggi che con la morte di Borsellino non hanno nulla a che fare. Vengono tutti condannati. Ci vorranno 25 anni per arrivare alla verità, dopo che solo nel 2008 Gaspare Spatuzza rivelerà che Scarantino (e con lui Profeta, Murana e La Mattina) è estraneo ai fatti; e che nel 2009 l’altro “falso” pentito Salvatore Candura confesserà che la 126 imbottita di esplosivo che ha ammazzato Borsellino non l’ha rubata mai (ce lo dice anche Giovanni Bianconi, Un pessimo affare, Solferino 2022). Nel 2017, la corte d’assise di Palermo condannerà i veri responsabili della carneficina.

Noto (ma non abbastanza) è poi il tradimento subito da Luigi Ilardo, ucciso il 10 maggio 1996 a Catania. Ilardo era preziosissimo perché era un boss molto vicino a Bernardo Provenzano. Per motivi incomprensibili il colonnello Mori – pur avendo avuto indicazioni puntuali sul covo di Provenzano da Ilardo, che si andava “pentendo” (lo chiamavano la fonte “Oriente”) – non lo cattura nella primavera 1996. Il pentito viene eliminato sotto casa pochi giorni dopo (da leggere anche il racconto della figlia Luana ad Anna Vinci, Luigi Ilardo, omicidio di Stato, Chiarelettere 2021) e la latitanza di Provenzano durerà ancora 10 anni. Per il favoreggiamento di Provenzano, Mori verrà assolto per mancanza di dolo e non già perché i fatti contestatigli non fossero veri e non ha mai spiegato perché – quando tutto era pronto e i precisi ragguagli sul covo a Mezzojuso (in provincia di Palermo) erano stati verificati – non fece scattare l’operazione di cattura del latitante. Inoltre, nessuno ha mai chiarito come avvenne la fuga di notizie sull’imminente collaborazione formale di Ilardo, che fu l’immediato preludio al suo assassinio.

E poi il gran finale: Matteo Messina Denaro da Castelvetrano. Scappa – si fa per dire – da 30 anni. Sulla carta lo cercano tutti: ha sul groppone condanne definitive per gli assassini di Falcone e Borsellino e per decine e decine di altre persone (bambini compresi), uccise con i modi e per i motivi più vari. Ma per 30 anni nessuno si premura di acchiapparlo veramente. Alcuni magistrati ci hanno perso il tempo della loro vita appresso: Teresa Principato, per esempio. Ma nelle ultime pagine del libro, Borrometi si lascia andare a un comprensibile entusiasmo per la cattura il 16 gennaio 2023. Batte lui il lancio dell’AGI.

Ma l’identificazione di chi ha coperto la latitanza del Siccu si fa più sbrigativa: elementi massonici e un medico di base. Dalle cronache più recenti sappiamo però che esponenti degli enti locali (Castelvetrano e Campobello di Mazara) hanno avuto un ruolo centrale nel fornire al Messina Denaro l’identità fasulla di Andrea Bonafede, nome peraltro di una persona vera, suo amico.

La lista dei traditori è in continuo aggiornamento.

 


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