I giorni difficili del presidente Lula

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Scadono i primi cento giorni alla sua terza presidenza della decima economia mondiale e il bilancio si presenta controverso. Non era ancora entrato nel suo ufficio, quando Lula ha dovuto improvvisare aiuti di pronto soccorso agli indios yanomami nella selva amazzonica di Roraima: morivano uno dopo l’altro uccisi dalla contaminazione di mercurio e dagli incendi provocati dalle migliaia di clandestini che trafugano oro e legnami pregiati. Brasilia non era stata liberata del tutto dagli accampamenti golpisti dei seguaci di Jair Bolsonaro, che avevano invaso e devastato i palazzi delle massime istituzioni repubblicane. Tutt’altro che compiuto il lutto per i 650mila morti (e 34, 47 milioni di contagiati) dal Covid, di cui l’ex presidente fuggito poi negli Stati Uniti aveva negato la pericolosità. Nel Nordeste la fame rinsecchiva nuovamente decine di migliaia di vite. Posti a dura prova da tanti traumi, brasiliani anche di buona volontà dichiarano esaurita la propria pazienza.

“Vedo aspetti patetici e ritardi, ritardi, ritardi… “, si è sfogato sui social Paulo Coelho, forse lo scrittore brasiliano vivente oggi più noto, carattere irruente, impulsivo; ma uomo indipendente, attivissimo sostenitore di Lula e della democrazia brasiliana. A Lula non perdona le polemiche minori in cui si lascia invischiare. Ultima, quella con l’ex giudice, poi ministro di Bolsonaro ed ora senatore per il centro-destra Sergio Moro. E’ lo stesso che perseguitò il presidente-metalmeccanico fino a farlo condannare al carcere, da cui è stato liberato e riabilitato dopo 19 mesi per le gravi violazioni compiute nel processo. Lula è intervenuto pubblicamente sulla scoperta di un presunto tentativo di attentato contro Moro, per domandarsi se si può escludere che si tratti di un’altra delle sue fantasie… Le reazioni più accese sono state immediate. Mentre l’inchiesta sui bolsonaristi che hanno assaltato il Congresso resta affidato ai tempi lunghi delle procedure giudiziarie, non necessariamente funzionali a privilegiare l’urgenza di proteggere la democrazia.

Assediato dalle crisi, Lula tenta a volte scorciatoie che si rivelano impervie. Interviene personalmente per calmierare i prezzi dei carburanti, trovando obiezioni nella stessa Petrobras, il gigante energetico di cui lo stato è il maggior azionista. Critica il Banco Centrale per l’aumento del tasso d’interesse, perché frena la crescita economica. Sa bene che questa è la risposta all’inflazione portata avanti da Stati Uniti ed Europa. Ma da convinto keynesiano pensa che faccia male al Brasile. Le leggi procedono a rilento perché non controlla un Congresso storicamente ondivago, a causa della pletora dei partiti che lo sovraffollano. E’ il prezzo che la restaurazione democratica ha dovuto pagare ai militari per mettere fine alla dittatura. Un fattore disfunzionale e corruttivo che nessun governo ha potuto finora correggere. Infine la sua stessa coalizione, che ha vinto senza tuttavia trionfare, somma al proprio interno forze (compreso il vicepresidente Geraldo Alckmin) convinte più della necessità di cacciare Bolsonaro che dei vantaggi di seguire Lula.

Il grande capitale brasiliano auspica e preme perché il governo avvii una stagione di privatizzazioni a cominciare dalla Petrobras (per un terzo nella mano pubblica, che ne detiene anche la maggioranza assoluta dei diritti di voto). Il presidente non lo esclude, ma intende prima riattivare il sistema produttivo richiamando investimenti da una rete di relazioni globali disfatta dall’inerzia di Bolsonaro. Un esempio è il suo viaggio in Cina, al penultimo momento rinviato per ragioni di salute. E comunque -quando lo riterrà opportuno-, spera di trarne un ammodernamento dell’intero sistema politico e non semplici vantaggi di bilancio finanziario. La sinistra libertaria e la destra gli rimproverano un’eccessiva tolleranza verso Venezuela e Nicaragua, ridotti da populismi fortemente personalistici a regimi tirannici. Ma Lula vorrebbe evitare rotture che indebolirebbero la sua visione: un Brasile capace di promuovere l’intero Sudamerica ad un ruolo di potenza mediatrice tale da farne un interlocutore internazionale autonomo e a tutto campo.

“Megalomane”, gli gridano dall’opposizione bolsonarista. “Certe accuse sono da considerare scontate, ma dicono più del contesto politico brasiliano che non del presidente Lula. L’interdipendenza tra questioni interne e internazionali è ovvia. Si tratta di modularne le forme e i tempi più utili a favorirne la soluzione”, ha commentato Fernando Haddad, ministro dell’Economia e tra i massimi dirigenti del Partido dos Trabalhadores, il PT fondato da Lula 43 anni fa. L’invito ricevuto dal presidente brasiliano per partecipare al G7 del prossimo maggio nella città martire di Hiroshima, in Giappone, è dunque uno scenario per lui ideale. La difesa dello stato di diritto, la guerra in Ucraina, la tensioni attorno a Taiwan (la Cina è il convitato di pietra), il commercio internazionale, sono i temi di un ordine del giorno in assoluta sintonia con le problematiche sulle quali Lula pretende intervenire. E il peso che può esercitarvi l’America Latina si misura nei milioni di tonnellate del suo export alimentare, minerario ed energetico.


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