Il PD e i conti con se stesso

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Il 4 dicembre non è una data qualsiasi per la sinistra e per il nostro Paese. Sei anni fa, infatti, con quasi il sessanta per cento di NO veniva respinto il referendum renziano che avrebbe stravolto la Costituzione, di fatto sancendo la separazione fra la prima parte della Carta, quella relativa ai valori, e la seconda, relativa alla loro applicazione concreta. Avremmo avuto così un impianto parlamentare e figlio della Resiatenza e un’applicazione di matrice sostanzialmente semi-presidenziale, contraria ai valori espressi dai padri costituenti e pericolosa nell’applicazione pratica, date le turbolenze cui è sempre sottoposto il nostro bistrattato contesto. Del resto, si trattava di una riforma figlia del presentismo, scritta male, priva di alcuna lungimiranza, utile solo a consolidare il potere temporaneo di una classe dirigente che, per fortuna, venne fermata al momento opportuno e dalle conseguenze imponderabili per la collettività. Ebbene, spiace dirlo, ma su questa vicenda non si è mai riflettuto abbastanza. Quanto meno, non lo ha fatto il PD. Anzi, ha fatto l’opposto. Pochi mesi dopo, difatti, nonostante fosse chiaro dove avrebbe condotto il renzismo, si è affidato nuovamente al Rottamatore, peraltro con percentuali bulgare, rendendo palese la sua natura e le sue reali intenzioni. Tutto il resto è storia nota. Ebbene, oggi quel partito va a congresso, affidandosi ancora una volta alle discutibili primarie per la scelta del segretario o della segretaria e vedendo contrapposti Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, ossia il presidente dell’Emilia Romagna e la sua ex vice, adesso deputata. Non entriamo nel merito delle singole candidature e delle cordate che le sostengono. Ci concentriamo, piuttosto, sul tema statutario, quello che ci sta maggiormente a cuore e su cui sarebbe opportuno aprire una discussione che finora, a sua volta, non ha avuto luogo.

Bisogna, dunque, intendersi sulla natura profonda di questo partito, sulla sua genesi e sulle sue prospettive future. Il Partito Democratico è nato nel 2007, dieci anni dopo il conclave di Gargonza, quando D’Alema archiviò sostanzialmente l’Ulivo e ribadì il primato dei partiti sul progetto unitario tanto caro a Prodi. All’epoca, forse, avrebbe avuto persino un senso. Dieci anni dopo, quando era ormai chiaro urbi et orbi che la Terza via avesse fallito e che quel modello sociale, economico e di sviluppo fosse un disastro, destinato a condurre la società nel baratro e l’intero pianeta a destra, quel soggetto è nato anti-storico. È inutile attribuire le colpe ai singoli esponenti: è l’impianto del PD a non funzionare, in quanto si basa su una visione antiquata, sull’idea di temperare al centro le pulsioni della sinistra, su un positivismo che già quindici anni fa non era più nelle cose. È un partito nato sull’onda della “fine della storia” e del trionfo dell’Occidente, proprio mentre la storia si stava prepotentemente riaffacciando nelle nostre vite, travolgendo le certezze di cartapesta legate al capitalismo e alle virtù di una globalizzazione che già a inizio millennio mostrava la corda ma nel 2007 era ormai chiaramente inservibile. Insomma, è stato fin dall’inizio un progetto miope, messo in pista unicamente per contrastare il declino del fallimentare secondo governo Prodi, ormai prossimo al tracollo, in vista delle Politiche che si sarebbero tenute di lì a poco. E qui si innesta il mio dissenso nei confronti di chi considera Renzi una parentesi. Io stesso l’ho pensato a lungo ma lo considero, attualmente, un errore interpretativo, anche grave. Volendo utilizzare la terminologia gobettiana, il nostro non è una parentesi ma l’autobiografia del PD. Diciamo di più: la bonomia tipicamente emiliana, la competenza e il tratto umano di Bersani avevano mascherato alla grande i numerosi problemi di una compagine che, già allora, funzionava poco e male, al punto che riusciva nell’impresa di perdere quasi tutte le primarie a vantaggio dei candidati più radicali, ossia espressi da un partito, SEL, che aveva un terzo dei suoi voti ma era ritenuto anche da molti elettori ed elettrici del PD più credibile, innovativo e affidabile rispetto ai soliti elementi d’apparato che venivano candidati dalla casa madre. Non solo: Bersani è stato uno dei pochi ad aver compreso la fase storica, solo che era imbrigliato dalle regole statutarie e da un’organizzazione che non gli consentiva in alcun modo di apportare le modifiche necessarie per far fronte al bisogno di rottura e cambiamento che sempre più si agitava all’interno della società. Prigioniero com’era, dovette accettare, di mala voglia, il pessimo governo Monti, finendo poi travolto dall’ascesa, inevitabile, del Movimento 5 Stelle. E qui si apre un altro discorso. Non sorprende, infatti, che un personaggio come Napolitano, la cui biografia e le cui posizioni parlano chiare, abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per opporsi al tentativo bersaniano di far nascere un esecutivo insieme ai 5 Stelle, ritenuti dall’allora inquilino del Quirinale inaffidabili per tutta una serie di motivi. I centouno e le successive evoluzioni del partito, renzismo in primis ma non solo, sono figlie degli errori e degli orrori della primavera del 2013, quando venne affossata la candidatura di un galantuomo come Stefano Rodotà, poi quella di Prodi e infine venne rieletto Napolitano stesso, al fine di favorire proprio la riforma costituzionale che per fortuna quasi venti milioni di italiane e di italiani hanno respinto.

Il renzismo, pertanto, non è un caso e non è una parentesi. Come non è un caso e non è una parentesi la candidatura di tutta una serie di personaggi, Bonaccini e Nardella innanzitutto, che del renzismo sono stati la quintessenza. E quando si sentono autorevoli personalità di quel partito ripetere che ormai il renzismo è stato ampiamente superato, l’unica risposta possibile è di guardarsi dentro, di guardarsi allo specchio, di fare una volta per tutte i conti con la propria storia e con la propria realtà. Matteo Renzi se n’è andato ed è evidente che ormai pensi ad altro, si occupi d’altro e si collochi altrove. Molte e molti dei suoi, probabilmente, vorrebbero seguirlo ma attendono di capire se davvero abbia deciso di andare a destra o se, a sua volta, stia aspettando di vedere cosa accade nel PD per pensare a future intese. Il problema non è nominalistico, quindi, ma di collocamento e di visione. Oggi servirebbe una sinistra, l’unico argine alla barbarie diffusa. Un progetto radicale, non estremista ma fermo su alcuni principî, che ponga al centro il tema della pace e del disarmo, a cominciare da quello nucleare; per non parlare poi della scuola, della battaglia contro il merito inteso in senso valditaresco, delle disuguaglianze sempre più insostenibili, dell’ascensore sociale che è immobile da almeno vent’anni, se non di più, e di una seria autocritica sulle immani sciocchezze compiute dai cosiddetti “progressisti” sul tema del lavoro, ben prima che venisse approvato il Jobs Act. Insomma, servirebbe un candidato o una candidata che si proponesse di superare il PD e di sfidare i 5 Stelle a fare altrettanto, un atto di coraggio senza pari, una visione ampia e plurale, una proposta rivoluzionaria e in grado di restituire un significato non nazionalista all’enunciato della Costituzione che recita: “La sovranità appartiene al popolo”.

Esiste una differenza sostanziale fra il sistema europeo e quello statunitense. Oltreoceano, il presidente viene eletto direttamente dai cittadini e non ha bisogno di alcun rapporto fiduciario col Parlamento. In Europa, invece, qualunque sia il modello, si è sempre pensato che il presidente del Consiglio, il premier o il cancelliere, uomo o donna che sia, debba ottenere la fiducia dal Parlamento perché quella è la voce del popolo. Da noi, da quando siamo stati espropriati del diritto di eleggere i nostri rappresentanti, questo legame è venuto meno, con le conseguenze drammatiche che sono sotto gli occhi di chiunque.

Un PD che voglia davvero rifondarsi e ritrovare la strada della rappresentanza, della piena democrazia e della Costituzione, dunque, non può che partire da una critica aspra e senza sconti alle storture della globalizzazione capitalista e da una rivendicazione del NO al referendum che avrebbe stravolto per sempre, in maniera irrimediabile, la nostra Carta. Con meno di questo, ogni discussione finirà col risultare sterile, monca, inadeguata e ogni candidatura espressa, compresa quella promettente di Elly Schlein, finirà col risultare sconfitta, anche qualora, come le auguriamo, dovesse riuscire ad affermarsi.


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