Orlando, il film che racconta la solitudine pubblica di questo nostro tempo. Intervista a Daniele Vicari  

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Orlando di Daniele Vicari, presentato Fuori Concorso al Torino Film Festival e nelle sale cinematografiche dal primo dicembre, è un film sull’identità e sull’appartenenza; sulla consapevolezza di vivere una solitudine pubblica che travalica i confini, attraverso una “storia semplice”.  Un rapporto ancestrale, nuovo, non facile tra un nonno e una nipote; una narrazione che sottrae riferimenti dichiaratamente politici eppure mostra tutta la complessità dell’essere estranei ed emigranti; le difficoltà di due generazioni opposte e simili: questi temi cardine invitano lo spettatore a moltiplicare i punti di vista (non soltanto quelli suggeriti da una regia sapiente che sa utilizzare i diversi mezzi di riproduzione del reale). Perché Orlando, dedicato a Ettore Scola e a un cinema che riesce a guardare le contraddizioni e la complessità del presente, è un affresco sentimentale che riguarda tutti, compresa quell’ Europa che ci appartiene e ci sfugge: un viaggio obbligato in cui Vicari cerca di parlare a un’intera società in affanno, che ha bisogno di conoscere e capire se stessa per superare la solitudine in cui è incastrata e per aprirsi al futuro.

Orlando (uno straordinario Michele Placido), scopre malamente, nel mezzo delle montagne laziali che abita da sempre, l’imminente morte dell’unico figlio, dimenticato in un Paese troppo lontano. Il Belgio è un luogo astratto, dove si parla una lingua sconosciuta a questo burbero solitario, inquadrato in primissimi piani che ne vanno a scavare tutti i segni del tempo come se il suo volto fosse un paesaggio (la Première Vague francese teorizza l’idea delle potenzialità del cinema come scoperta ravvicinata dei tratti umani simili a vedute naturali, così come i film di S.M. Ejsenstejn sublimano nelle trasformazioni di montaggio dei tratti facciali l’evoluzione della coscienza di classe nel grande cinema russo del Realismo Socialista).

Quest’uomo antico, costretto da circostanze tristi e con documenti scaduti, prende un treno per Bruxelles senza aspettative. E il cuore di un’Europa che non ha mai preso in considerazione, gli appare come un grigio (splendida la fotografia di Gherardo Gossi) incastro di strade, grattacieli, palazzi istituzionali dall’architettura futuristica del tutto estranea a quest’uomo di rocce e terra. Arriva come un emigrante fuori età massima e trova qualcuno ad aspettarlo, una bambina. La nipote Lyse (la promettente Angelica Kazankova), quasi più coriacea di lui se è possibile, ha tutte le fragilità di chi dev’essere seguito da un mondo adulto che gli dia modo di costruire un’educazione sentimentale e fornisca indicazioni, sia pur minime, su come camminare nel mondo. Ragazzina concreta, già abituata a cavarsela da sola in quella città sua e multietnica, Lyse è un incanto di contraddizioni giovanili: tenera e ostinata, allegra e vulnerabile, curiosa e malinconica, con una vita davanti piena di lingue da parlare, scuola, pattinaggio; sola, con un nonno che non conosce. Le incertezze di Orlando e Lyse, i due estremi della vita, si incontrano e si scontrano nel film.

Se lo spettatore vorrà guardare, vedrà in Orlando la precaria condizione del vivere contemporaneo: il dover lasciare la propria terra, le novità alle quali si è costretti ad adattarsi perché non si hanno alternative, la fatica di migliorare o costruire il proprio modo di essere, lo sforzo di rendere vivi i sentimenti. Lyse e Orlando sono soli e nelle loro solitudini, tanto diverse per età, incontrandosi cambiano entrambi il loro futuro. Perché Orlando è un film sul futuro. Ciascuno spettatore potrà riscoprire in sé l’incertezza e la fatica rimosse delle generazioni che lo hanno preceduto e intravedrà il futuro poco promettente dei giovani che conosce.

Il nuovo film di Daniele Vicari, dunque, con una struttura narrativa semplice, riesce a raccontare la complessità di un passato rimosso e di un futuro caotico, per tutti. Perché tra Lyse e Orlando ci siamo noi dell’età di mezzo: la “generazione produttiva” che non ha prodotto e non produce stabilità, non si occupa di ragazzi e anziani, non sa incanalare i sentimenti, realizza soltanto profitto e, a quanto pare, neanche quello.

In questa abilità di mostrare cose difficili in modo chiaro, Orlando appare come uno tra i migliori film di un regista sincero e complesso come Vicari. Un film dedicato a Ettore Scola, perché per progredire bisogna conoscere chi ci ha preceduto e pochi come Scola hanno raccontato com’è difficile e sorprendente l’uomo. Parliamo di Orlando con Daniele Vicari.


Come nasce questo film?

L’idea del film nasce in Puglia, nel 2014 dall’incontro con un ex emigrante in pensione, un uomo che non avrebbe voluto emigrare ma poi la vita lo ha catapultato in Svizzera. Mi è saltata in mente una micro-storia, quella di Orlando, che non ha mai voluto lasciare il suo paese, il suo lavoro di contadino, e che, a un certo punto, è costretto ad andarsene, a partire per motivi familiari. Così, a 75 anni, si ritrova catapultato nel cuore dell’Europa, un uomo che non si è mai chiesto cosa sia l’Europa… Quando si trova costretto ad andare a Bruxelles vive un’esperienza stravolgente e incredibile sul piano umano, scopre di avere una nipote con la quale dovrà costruire un rapporto, scopre cioè di avere un futuro; dall’altra parte, però, è anche costretto a prendere le misure col mondo, con l’Europa: una cosa che non aveva mai messo in conto, dovendo confrontarsi con una ragazzina di 12 anni, un’europea perfetta, che parla molte lingue e ha una struttura mentale completamente diversa da quella di Orlando. Ecco, quindi, la macro-storia: uno spaesamento sentimentale, sociale, geografico, umano. La nostra condizione “post-moderna”, la “deterritorializzazione”.

Ci può raccontare l’elaborazione di questa idea?

Sì, nel 2014 ero in un paesino della Puglia, invitato da Paolo Pisanelli al festival “Cinema del Reale” che si svolgeva a Specchia (Le). In un paesino a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca, Presicce, stavano montando lo schermo cinematografico nella piazza. A un certo punto, un signore quasi ottantenne mi si avvicina e comincia a raccontarmi la sua storia: quella di un uomo che non avrebbe mai voluto emigrare dalla sua terra e invece si trova costretto a partire per la Svizzera, per fare un lavoro stagionale, e resta lì quarantacinque anni. Mentre lui me la racconta, io mi rendo conto che la sua storia mi riguarda e non poco. Mio padre, infatti, ha lavorato in Svizzera nei primi anni ’60, dove ha conosciuto mia madre emigrata anche lei; prima di loro, mio nonno negli anni ’30 aveva lavorato in Svizzera e poi in Belgio, nelle miniere. Io sono il primo di tre generazioni che non è stato costretto a emigrare. Vengo da una famiglia proletaria e contadina e il destino di tutte le persone che mi hanno preceduto è stato quello di emigrare, il mio cognome di chiara origine siciliana porta con sé questo destino. Ho quindi un privilegio, rispetto a chi mi ha preceduto. Ho così deciso di scrivere un film che non avesse però nulla a che fare con una narrazione “sociale”, ma con qualcosa di più destabilizzante: col fatto che i nostri sentimenti, nel momento in cui cambiamo luogo fisico, non sappiamo davvero dove vadano a finire. Non sappiamo come affrontare i rapporti umani nel momento in cui cambiamo nazione, lingua, abitudini. Finché rimaniamo ancorati alle nostre origini, abbiamo una mappa del territorio in cui abitiamo, ma abbiamo anche una mappa sentimentale legata a quel luogo: sappiamo a chi dobbiamo voler bene e a chi no. Quando, invece, cambiamo completamente posto, improvvisamente rimaniamo soli, spaesati. Ecco, quindi, che ho capito che il film dovesse raccontare la solitudine. O meglio, due solitudini: quella di Orlando e quella di Lyse. E queste due solitudini sono un incontro, ma anche uno scontro tra un vecchio e una ragazzina, diversissimi tra loro, non soltanto per età. Eppure, il nonno e la nipote hanno lo stesso problema: devono lottare per definire la loro identità e il loro futuro.

Nell’incontro tra i due metto in gioco il rapporto filiale: cosa significa essere padre e figlio (nel caso specifico essere nonno e nipote, ma questo sentimento ha chiaramente a che fare con la paternità e con il senso di appartenenza rispetto a qualcun altro, che è cosa diversa dal possesso). Il fatto di “appartenere” o meno a una persona è un discrimine fondamentale. L’idea dell’appartenere a qualcuno, nel film, si mescola all’appartenenza linguistica, culturale, geografica e temporale. Quello di Orlando è in qualche modo anche un viaggio nel futuro, inteso come dimensione del presente che non si conosce ancora, ma è da esplorare. Sono infatti convinto, come ci ha insegnato Einstein, che passato, presente e futuro non esistono. Esiste una convenzione sulla base della quale dividiamo il tempo, la vita umana e quella dell’universo. Orlando fa un viaggio nel futuro, cioè un viaggio verso luoghi, persone e lingue sconosciuti.

Chi è Lyse?

Lyse è una bambina di dodici anni e cresce in una condizione che noi non avevamo previsto. Noi, i cinquantenni di oggi, cioè, non avevamo previsto che Lyse, ottant’anni dopo suo nonno, avrebbe dovuto fare la stessa battaglia: la battaglia per avere un’identità aperta, per essere sicura di ciò che è. Da questo punto di vista, Lyse e Orlando hanno lo stesso problema e hanno anche lo stesso carattere, perché devono lottare per avere qualunque cosa, anche per essere amati e per amare. Non esiste, per queste due persone, una rete di rapporti familiari codificati. Cerco di spiegare perché la battaglia di Orlando e Lyse sono simili. Orlando non aveva niente di certo nella sua vita del dopoguerra, ha dovuto costruire tutto da sé. È talmente coriaceo nella battaglia che vive da bastare a sé stesso e non sa neanche essere padre. In effetti, Orlando non è stato un buon padre, ma la vita gli dà la possibilità di rifarsi. Nell’ultima parte della sua esistenza incontra la nipote, che ha bisogno di lui. All’inizio, vorrebbe portarla da Bruxelles al suo paese minuscolo nel centro Italia come se la bambina fosse una gallina e lui potesse disporne come vuole, come se lei e non avesse suoi affetti lì dov’è cresciuta, sue abitudini, una scuola da seguire, regole… Ma Lyse è esattamente come Orlando: è ostinata e non si fa portare via. E, così come Orlando ha vissuto con una guerra alle spalle, Lyse vive con una guerra davanti. Sono speculari le loro esistenze, si specchiano l’una nell’altra.

La cosiddetta “generazione produttiva”, la nostra, la mia, ha lasciato a casa vecchi e bambini durante e dopo la pandemia da Covid19. La nostra “generazione produttiva” ha fatto finta che la vecchiaia e la giovinezza non esistano, le ha messe tra parentesi. E per l’appunto, vecchi e bambini, negli ultimi due anni, sono esattamente le persone che hanno sofferto di più. Ma ciò accade anche in assenza di pandemie, e questo presente che abbiamo costruito pesa come un macigno sul nostro futuro. Queste due generazioni, lo vediamo chiaramente e se non lo vediamo fingiamo di non saperlo, stanno vivendo un disagio fortissimo, ma sono loro che danno continuità ai nostri affetti familiari.

Orlando ha una guerra alle spalle, Lyse una davanti, ci ha appena detto. Nel frattempo, tra la seconda guerra e la guerra in Ucraina, qualcosa dev’essere andato storto, in questa nostra società. Orlando è la personificazione di un “tipo” di italiano: un semianalfabeta, un contadino, un uomo che non sa gestire i sentimenti, che sopravvive nel suo pezzettino di mondo. È insomma, quel prototipo dell’italiano che la nostra società ha rimosso, per nascondere la fatica e la “vergogna” (chissà perché) dell’essere tutti un po’ figli di Orlando. Contemporaneamente, Lyse, che ha vissuto lo sviluppo, ma non il progresso (Pasolini ci diceva che una società che crea “sviluppo” e non “progresso” non si evolverà, ma involverà), non ha gli strumenti per vivere in modo “sano” la sua condizione giovanile. Cosa abbiamo sbagliato?

Non mi pongo più le domande in questi termini, ma accetto la sfida. Prendo atto di alcune cose: Orlando ha quasi 80 anni, era bambino quando è finita la seconda guerra mondiale, ha dovuto affrontare un lungo dopoguerra, dunque. Lyse vive qualcosa di simile: un’incertezza e una fatica estreme. Con una differenza: noi pretendiamo di essere una società evoluta, che ha conquistato lo spazio, abbiamo un’arroganza piuttosto evidente. La generazione di Orlando, invece, è fatta di persone che dovevano mangiare, avevano esigenze semplici. Lo “sviluppo” senza evoluzione, nato dalle fatiche della generazione di Orlando, ha creato una solitudine simile a quella di Lyse. Contemporaneamente, dentro ognuno di noi, dentro ogni italiano, c’è un Orlando e c’è anche una Lyse, appunto. Ma noi tutti facciamo semplicemente finta di non vederli, non li guardiamo, non ne parliamo. Questa mancata presa di coscienza è un dramma. Le età che noi consideriamo improduttive, la vecchiaia e la giovinezza, sono quelle nelle quali gli affetti hanno più spazio, sono più potenti e autentici rispetto a quelli che viviamo noi “produttivi”. E noi, criceti nella ruota, non ci poniamo il problema dei sentimenti: se lo facessimo la ruota rallenterebbe. Perché ci facciamo carico di portare avanti la “Storia” che, per quanto ci riguarda, è attività produttiva e consumo delle merci, oltre che del pianeta. In questo modo, ci attribuiamo un ruolo di servizio, come se i sentimenti non ci riguardassero. Lyse, invece, a 12 anni, deve combattere per esistere nel mondo delle merci, si deve scontrare con un mondo che qualcun altro ha predisposto per lei. E quindi si ribella. In questo senso, credo che la generazione di Lyse sia piena di aspettative, di bisogni inespressi e anche di paure sul destino stesso del nostro mondo. I ragazzini sono gli unici che stanno manifestando per il futuro del pianeta.

Il suo cinema riesce a parlare di “politica” intesa come gestione della cosa pubblica con le depravazioni e gli abusi che su essa si compiono; e riesce a far emergere il rimosso delle coscienze, mettendo a nudo sentimenti profondissimi. Queste qualità hanno, evidentemente, delle origini, degli autori come punti di riferimento. C’è molto cinema di denuncia e di sentimenti che fa parte della tradizione neorealista e post neorealista. Il film, non a caso, è dedicato a Ettore Scola. Perché?

Devo moltissimo a Ettore, tanto per questioni concrete, quanto per ideali che ho ascoltato e cercato di portare con me. Spesso, nei dibattiti pubblici e no, ci chiedevamo se il cinema che stavamo facendo raccontasse davvero il presente. E me lo chiedo ancora, anche se Ettore non c’è più: è una domanda esistenziale, in fin dei conti. Ho dedicato il film a lui perché porsi quella domanda non era e non è scontato. E perché cercare di trasferire quella domanda in un racconto cinematografico mi sembra importante.

Non amo le citazioni, l’esplicitazione dei riferimenti, mi distraggono. Questo film non fa eccezione, ma ha a che fare con una domanda molto legata ai discorsi fatti con Ettore: siamo in grado di raccontare questo processo sociale, storico, politico nel quale siamo immersi? E questa cosa che si chiama Europa come la raccontiamo? Nel passato, quando l’Unione Europea non esisteva dal punto di vista istituzionale, per paradosso il cinema era in grado di raccontarla. Attraverso film sull’emigrazione, per esempio, abbiamo scoperto che il nostro cinema poteva andare oltre i confini nazionali e raccontare quella sorta di “al di là”: l’America, la Francia, l’Australia, la Germania… Ora che l’Europa esiste come identità giuridica, continentale, ci siamo chiusi dentro i nostri confini, quasi per reazione, per paura. A volte temo che abbiamo nostalgia anche dei conflitti militari, perché comunque danno identità, o meglio illudono che nella dinamica amico-nemico si possa trovare una qualche formula identitaria.  Ecco, con questo film cerco di aprirmi a quel racconto. Per questo motivo Orlando raggiunge il centro dell’Europa: Bruxelles. È piuttosto chiaro che per questo vecchio contadino l’Europa non è nulla. È solo una chiacchiera, una notizia. Però Orlando va proprio nella città che rappresenta l’UE e la bambina che incontra vuole vivere lì, in quella città. Orlando, quindi, è costretto ad affrontare questo luogo per lui insignificante. Cosa succede, a una persona di quasi ottant’anni, quando viene sradicata dalle sue abitudini, dai suoi luoghi, dalle sue persone e dalla sua lingua e dialetto, quando viene costretta ad andare via? Ecco, questa domanda non ce la poniamo più. E invece è importante: se non capiamo dove siamo (come accade a Orlando) è difficile capire cosa possiamo fare perché la nostra vita abbia un senso. Ed ecco perché dico che Orlando, questo vecchio, è dentro ognuno di noi. Non soltanto perché in ogni famiglia italiana c’è un parente che ci ricorda Orlando, ma soprattutto perché il problema di Orlando è il problema di tutti noi ed è il problema relativo alla nostra identità. E, a proposito dell’identità, credo che lasciare questo tema nelle mani di persone che lo maneggiano in maniera retrograda, è un grave errore di chi racconta storie e, ancora peggio, di chi fa politica. È un errore esiziale.

Ha appena detto che il cinema italiano ci ha fatto vedere cosa siamo, noi italiani: un popolo di migranti. Ma proprio questo Paese, tradizionalmente migrante, non vuole accogliere chi, come lui, ha cercato, e trovato, accoglienza altrove. La questione dell’identità, appunto, è un tema, tra i temi del film. Oltre all’inadeguatezza del presente, oltre al racconto di due generazioni contrapposte ma unite nel non essere ascoltate e nel volersi ribellare a questa condizione, affronta un altro tema: l’identità e il far parte di un mondo nel quale tutti, siamo stati e, inevitabilmente, saremo migranti.

L’Italia è il Paese europeo dove, a oggi, c’è il più basso numero di immigrati e il più alto numero di emigranti. L’Italia, cioè, non ha mai smesso di perdere popolazione in favore della emigrazione. Negli ultimi anni, una media di 150.000 – 200.000 persone sono andate via dall’Italia e, certo, questa non è una questione secondaria. Il cuore del film per me, ripeto, ruota attorno all’incontro di due mondi che non era previsto si incontrassero. E questo tema riguarda sia i flussi migratori, sia il nostro quotidiano.

E qui c’entra anche la pandemia: pur restando fermi nel proprio posto conosciuto, si può essere soli. È una “solitudine pubblica”, la più difficile da combattere e risolvere, ed è questa l’essenza del film. È avvenuto durante la pandemia, quando cioè siamo rimasti bloccati nei nostri quartieri, nelle nostre case, ma non siamo stati meno soli. In pandemia abbiamo conosciuto una solitudine particolare che riguarda tutti noi, ed è, appunto, una “solitudine pubblica”. Quantomeno, Orlando e Lyse hanno sperimentato l’incontro tra due solitudini. Attraverso un viaggio forzato, come quello che è costretto a fare in Belgio,  Orlando incontra “l’altrove” e Lyse.

Questa “solitudine pubblica”, che esite durante la pandemia per forza di cose, ma esite in modo chiaro oltre la pandemia, come la si combatte?

Io comincio a temere che sia indifferente chi governi la società in cui viviamo. Mi pare che nessuno schieramento politico sia in grado di porsi in modo profondo, serio, radicale, il tema dello sviluppo sociale. Il meccanismo di sottomissione individuale alle leggi della economia non viene trattato nel discorso pubblico, non viene nemmeno rilevato, tantomeno risolto da alcuna coalizione o partito che sia. Per questo nel film do per scontato che siamo una società di persone sole. Certamente, ciascuno di noi può unirsi in diversi gruppi e cercare di combattere questa condizione, ma questo sforzo non cambia la struttura della nostra società, basata sulla atomizzazione e sulla dispersione degli affetti. Bisogna prenderne atto, perché il cambiamento avviene solo a partire da questa consapevolezza. Senza la presa d’atto della nostra solitudine non cambierà la nostra condizione. Ed è per questo che, con Orlando, spero di riuscire a parlare a tutti: perché la questione dell’identità, di chi siamo noi rispetto al nostro modo di vivere, ripeto: è una questione dirimente e lasciarla in mano a chi ne fa solamente un uso strumentale e ideologico è un grave errore.


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