Non possiamo mai smettere di restare umani Intervista con Francesco Pivetta

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Francesco Pivetta appartiene a coloro che nel 2001 hanno vissuto in prima persona lo spartiacque epocale di Genova. Una tragedia tuttora attuale, forse persino più di allora con il suo dolore, la sua barbarie ma anche i suoi temi, la bellezza di una battaglia collettiva da riprendere e il senso di un futuro migliore da costruire insieme. Con la Bottega dell’anima, un’attività situata nel cuore del centro storico della città, si prende cura da anni degli ultimi, dei deboli, delle prostitute e di tutte e tutti i sommersi di una società che punta solo sulla “meritocrazia” e sull’esaltazione acritica dei vincitori.
Il suo desiderio di sognare ancora, di non lasciare indietro nessuno e di porre l’umanità al centro di ogni discorso, al pari dell’indispensabile memoria storica di ciò che è stato, costituiscono un balsamo per l’anima. Uno di quegli incontri che ti rimangono dentro.

Sono trascorsi ventuno anni dai tragici fatti di Genova. Cosa ricordi di quei giorni? A quali manifestazioni hai partecipato?

Ricordo tutto e in maniera vivissima. Ho partecipato a tutte le manifestazioni di quelle giornate.
Alla Foce c’erano bar, esposizioni, conferenze, concerti. La colonna sonora era tutta di Manu Chao. Avevo partecipato a una di quelle serate che scherzosamente chiamavamo “Gay 8”: avevo riportato le testimonianze delle persone omosessuali finite nei campi di concentramento nazisti. Oggi mi sembra paradossale l’aver ricordato allora quello che non avevo vissuto e ricordare oggi quello che ho visto ventuno anni fa.
Questo è stato: l’ho descritto chiaramente in una testimonianza che tu conosci.
Avevamo lavorato con entusiasmo per preparare quelle giornate. Ricordo la giornata dei migranti, partita dalla Chiesa di Carignano, allegra e giocosa, piena di slogan. Al terrazzino superiore della Questura, finestre aperte per il gran caldo, c’era Gianfranco Fini. Guardava, guardava e commentava con i suoi fedelissimi il serpentone che sfilava davanti a lui per prendere via Carlo Barabino e il tunnel per Albaro. Che brutto ricordo. I miei genitori, che stavano rinchiusi nella zona rossa, mi telefonavano dicendomi d’aver sentito poliziotti in borghese dire ridendo che avevano ricevuto il via libera per sfogarsi con i manifestanti. Qualcuno aveva detto ai miei che erano arrivati anche sacchi mortuari.
Sì, forse erano voci, ma la tensione saliva al massimo.
Il giorno della morte di Carlo Giuliani ero in via Assarotti. Avevo scelto la manifestazione creativa, con i gruppi spagnoli “Pink” e le “Mani bianche”.
A due passi da Corvetto avevo salutato don Gallo e Franca Rame. Mi sembravano presenze che davano forza. Anche a me.
E io? A 52 anni, non potevo non essere là con tutti quei giovani dagli occhi puliti. Erano perlopiù minorenni. Venivano da tutta Europa. Ci credevano. Erano migliaia e cantavano, giocavano, danzavano.
Quando a Manin, con la scusa di inseguire i Black Block, la polizia li ha trovati in sit-in con le mani bianche alzate, li ha massacrati.
Ho cercato di portare in salvo un gruppetto per le vie della Circonvallazione a monte di Genova che non potevano conoscere. Case amiche hanno aperto le porte.
Intanto la tragedia avveniva in piazza Alimonda. All’interno di una casa accogliente l’abbiamo saputo dalla televisione. Sbiancamenti. Silenzio. Morte.
L’ultimo giorno ero con la comunità di San Benedetto a stendere sui marciapiedi di Boccadasse le lenzuola dei morti di Aids. Finalmente i padri si erano svegliati. Stavolta centinaia di migliaia di persone sfilavano per corso Italia: partiti della sinistra, bandiere storiche del movimento operaio, sindacati, istituzioni, soprattutto madri e padri. Non lasciavano più soli i figli.
Ma intanto i Black Block scendevano correndo da via Cavallotti. Avevano l’aria dei provocatori pagati. Occhi cattivi. Avevo il pelo d’oca sulle braccia. Ritirammo le lenzuola in fretta e furia. Dalla Foce la polizia avanzava. Sul mare lungo la massicciata di corso Italia navi delle forze dell’ordine, tante, piccole e bellicose, disposte come pronte a sparare.
Fumogeni, occhi arrossati, persone pestate dalla polizia in borghese. Ossa rotte, visi sanguinanti.
Taccio su quell’ultima notte atroce, quando mi raggiunse la notizia della mattanza alla Diaz.
In seguito le torture di Bolzaneto. Taccio per pudore.

Hai scritto espressamente che i volti dei ragazzi inizialmente erano colmi di speranza, poi di disperazione. Ti sei soffermato su emozioni e sguardi. È lecito definirlo uno spartiacque per il nostro Paese e per un’intera generazione?

Sì, quegli sguardi si sono spenti. La lotta è stata rinviata di quasi vent’anni. Ci sono subito state testimonianze, video, film, scritti: ma era come se tutto fosse accaduto secoli prima. Come per Giorgiana Masi, l’angelo è passato col suo velo d’oblio. Carlo Giuliani è morto, Gli eroi sono tutti giovani e belli. Sulle lapidi delle nostre città ci sono scritti i nomi dei caduti della prima guerra mondiale. Non muovono più emozioni. Che tristezza! Una vita strappata alla vita perché la vittima sacrificale doveva esserci. Allora lo sapevamo tutti. Facevo scongiuri perché non accadesse ma confesso che temevo una carneficina ancora più cruenta.

Come nasce la Bottega dell’anima? Cos’è? Di cosa vi occupate?

Alla Comunità di San Benedetto al Porto di don Gallo, dai primi anni Novanta in poi, abbiamo fatto gruppi di autoaiuto per persone sieropositive, messo in piedi Unità di strada per persone tossicodipendenti e prostituzione. La parola d’ordine era: riduzione del danno.
Dodici anni fa alcune mie amiche, che provenivano da quell’esperienza comune, hanno proposto di aprire sulla strada un centro d’ascolto gratuito. Per chi soffre di disagio psichico e sociale c’è solo il pubblico (quando c’è e come c’è) o il privato, inaccessibile a chi non ha soldi.
In via della Maddalena al 48 rosso, pieno centro storico di Genova, c’era una pescheria in disuso. L’abbiamo affittata (è tutto a nostro carico, siamo in 5 e versiamo le nostre quote regolarmente e da sempre. Dall’ente pubblico neanche il becco di un quattrino). La mattina è una bottega aperta, sulla strada, come un negozio qualsiasi. Chi vuole entra e parla con chi c’è in quel momento. Il pomeriggio sviluppiamo colloqui individuali con chi ha domande più complesse. Da noi hanno sede i comitati delle prostitute, si incontrano gruppi di immigrati, facciamo formazione o diamo una mano per quanto siamo capaci a chi, sulla strada, non ha nessuno che lo ascolti. Anche chi è stato pestato a Bolzaneto, si è rivolto a noi. Ma queste sono storie private.

Parliamo un attimo del vertice. Molti osservatori lo hanno considerato un sostanziale fallimento. Qual è stata la principale mancanza di quell’incontro fra i potenti a Palazzo Ducale?

Non credo sia stato un fallimento. Anzi. Quello che i potenti volevano era fare affari. Li hanno fatti. Il resto bla bla bla, come direbbe Greta. A Palazzo Ducale hanno celebrato se stessi (Berlusconi, Bush, Chirac, Schroder, Putin…), tra limoni attaccati con lo spago ai rami delle piante in piazza, mentre la polizia era pronta a difendere le loro cene eleganti (visto il padrone di casa) con il pugnale tra i denti. Il resto è solo ipocrisia.

Veniamo ai temi. Dall’ambiente ai diritti delle donne, passando per il modello di sviluppo, sono più attuali che mai. L’impressione di molti è che si siano persi due decenni. Che opinione hai dei Fridays for future e di tutti i movimenti che sono sorti negli ultimi anni all’interno di una generazione che nel 2001, il più delle volte, non era nemmeno nata?

Questa generazione ha un peso sulle spalle enorme. L’eredità nera gliela abbiamo lasciato noi, i loro nonni. I figli sono stati massacrati a Genova e/o hanno girato lo sguardo da un’altra parte. Per i giovanissimi del FFF ci sono da affrontare pandemie (già iniziate), guerre (già in corso) e cambiamenti climatici e migratori (immani e quotidiani). Mi fanno una tenerezza infinita e ho il sacro timore che questi/e giovani vengano annientati da promesse ipocrite e interessi mondiali (di pochi) con troppo pelo sullo stomaco per stare a guardare alle loro proteste. Ma credo comunque che il mondo del futuro sia loro. Le loro battaglie sono performative e qualcosa succederà, qualcosa cambierà.
Spero in un’alleanza intergenerazionale con scienziati, nonni e padri, capaci di tornare alla politica. Glielo dobbiamo. Anche se è un sogno, dobbiamo sognarlo.

Ad un tratto, descrivi le prime ore di Genova libera, il ritorno alla normalità, le persone che si riversano nella ex zona rossa: che ricordi hai di quei momenti? Che impressione ti fece quest’idea che la vita dovesse continuare nonostante tutto?

Il sollievo era tanto, ma chi girava nel centro città mentre venivano rimosse le barriere erano giovani misti. Abitanti, partecipanti alle manifestazioni, amici, ma anche poliziotti. Vittime e carnefici insieme. Avevano la stessa età. Ero a un bar a bere una birra quando mi resi conto di tutto ciò. Rimasi sbalordito. Capivo il gioco delle parti. In quel momento per me, però, era troppo.
Mi sentii male. Abbandonai il bar e corsi a rifugiarmi a casa. Era nausea.

Alla luce delle storture che il capitalismo liberista ha recato con sé nell’ultimo ventennio, è lecito definire quel G8 e quel movimento alterglobalista una Resistenza sconfitta?

Sì, è quello che è avvenuto. È stata una grande sconfitta. Inutile farci sopra facili retoriche o inutili piagnistei.
Mi sanguina il cuore quando leggo sui muri della città le poche scritte rimaste che recitano “Carlo è vivo e lotta insieme a noi”. Semplicemente non è vero. Carlo è morto.
E se oggi il testimone della lotta viene ripreso in mano, è grazie all’attuale nuova generazione, spontanea, innocente, senza memoria: quella di Greta.
Nei confronti del movimento mondiale di Porto Alegre, onesto, generoso, creativo, capace di mettere insieme esperienze, saperi e idee diverse, nel 2001 a Genova sono state effettuate crudeltà immani, ferite non rimarginabili, soprattutto rinviando di decenni quello che si poteva fare allora. Un delitto contro l’uomo, il pianeta, la vita. Si sono richiuse le acque del sistema sopra quei corpi giovani. Una bottiglia è rimasta a galleggiare in mare: è quella che racconta l’accaduto e che spera di essere sempre raccolta sulla spiaggia da qualcuno capace di ricordare quei fatti annientatori.

Perché un ragazzo o una ragazza di vent’anni dovrebbero appassionarsi e studiare le vicende di allora? Quale insegnamento possono trarne? E tu in cosa sei cambiato e in cosa sei rimasto uguale rispetto a quei giorni?

Non credo che sia appassionante per i/le ventenni d’oggi studiare quegli avvenimenti, se non in casi particolari e comunque individuali. Loro partono da zero, una scoperta che viene da lontano ma che riescono a declinare solo nel qui ed ora. E hanno ragione.
Sono convinto che il compito di studiare l’accaduto appartenga piuttosto alla generazione precedente: conoscere, educare, trasmettere.
Come in tutte le vicende ‘perdenti’ la memoria è tutto. Far sì che le nuove generazioni, attente al futuro del pianeta, sappiano, ricordino, trasmettano i saperi dei ragazzi di Porto Alegre.
Io ho capito che è facile cadere ma che è più importante risollevarsi. Cadere e risollevarsi. Cadere e risollevarsi. La fatica di Sisifo è umana. Non possiamo mai smettere di restare umani.


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