“Mackintosh”. Un racconto di Gianfranco Angelucci

1 0

Mac è stato il mio cane. Dopo di lui non ne ho avuto nessun altro. Forse per viltà, non volevo soffrire di nuovo. L’avevo comprato una domenica al mercato di Porta Portese, a fine mattinata. C’era una ragione che non potrei in nessun modo sottacere.

Procedendo tra le bancarelle di via Portuense, a un certo punto la strada si allarga in uno spiazzo dove per consuetudine venivano venduti gli animali: canarini, pappagalli, criceti, conigli, quel che capitava e naturalmente anche cucciolate di gatti e di cani. In una scatola da scarpe erano rimasti due cuccioli minuscoli, di tre mesi forse meno, sembravano meticci di dalmata con macchie nere sparse sul manto bianco. Sapevo che avrebbero fatto una brutta fine. Ancora negli anni Settanta, quando il mercato finiva tra l’una e le due, i camion uscivano in fila dalla porta secentesca di Papa Barberini, prospicente in altre epoche il leggendario Ponte Sublicio che Orazio Coclite aveva difeso da solo, secondo lo storico Tito Livio, dall’attacco dei soldati di Porsenna durante l’assedio di Roma del 508-507 a.C.

Sotto l’arco di marmo passavano di stretta misura i pesanti automezzi, senza potersi spostare di un centimetro. Così avveniva che i cani invenduti venissero piazzati proprio all’imbocco del fornice, dove gli autisti non avevano nessuna possibilità di deviare ed erano costretti a schiacciarli sotto le ruote. Una prospettiva raccapricciante. Da tempo rigiravo tra me e me il proposito di prendere un cane e quel maschietto affettuoso che alle mie carezze aveva preso a popparmi il dito, forse perché aveva fame o sete sotto il sole canicolare, mi aveva rapito l’anima. “Quanto costa?” “Cinquemila lire”. “Lo prendo”. L’avevo sollevato non dalla collottola ma ponendogli una mano sotto la pancia, mentre lui arricciava il tartufino nero per cercare di capire chi fossi. Una signora, accanto a me, avvertendo credo un identico nodo al petto, aveva detto: “Allora io prendo l’altro.” “E’ una femmina”. L’avevano avvertita con un grugnito, quasi fosse una colpa. “Fa lo stesso”, aveva risposto sbrigativa allungando una carta da cinquemila senza aggiungere altro, e s’era portata via la scatola col suo contenuto. I due malcapitati erano salvi.

Era la prima volta che tenevo tra le mani una creatura viva così piccola e inerme e mi ero sentito invadere da una sensazione insolita, un’onda di calore, o meglio un flusso potente di energia sconosciuta. Non sapevo nulla dei cani, a parte il debole per loro che nutrivo fin da bambino; avevo sempre desiderato averne uno, ma nella mia famiglia un animale non era ben accetto, eravamo già in cinque, avrebbe rappresentato un elemento di disordine e di ulteriore impegno per ognuno di noi. Non c’era posto.

Ora che avevo una casa mia, da sposato, potevo prendere quella decisione a cuor leggero, sebbene non avessi nessuna di idea di cosa significasse allevare un cucciolo, quali sacrifici avrebbe comportato.

Mia moglie insegnava, e la mattina usciva presto per raggiungere la scuola. Io restavo a casa a scrivere e Mac era cresciuto con me. L’avevamo chiamato così perché era un diminutivo di Mackintosh, l’agente speciale, e anche il titolo del film di John Huston con Paul Newman, che ci aveva avvinto la sera prima al cinema. A mia moglie piaceva molto Paul Newman.

“Come lo chiamiamo?” “Mackintosh”. E lui s’era voltato a quel suono. “Vedi? Ha già capito di essere lui Mackintosh”. Ci divertiva l’idea di aver portato a casa un fascinoso agente speciale.

Era un esemplare molto bello, vivacissimo, spregiudicato, avventuroso. E mi faceva disperare. C’erano voluti sei mesi perché il nostro appartamento, a Trastevere, non apparisse più un accampamento.

Mac stava sempre con me. Anche in macchina. Avevo a quel tempo una piccola utilitaria a due posti, decappottabile, lo appoggiavo sul sedile accanto e lui, che voleva starmi in braccio, piano piano veniva a sedermisi in grembo, appoggiava il dorso al mio petto e guardava davanti a sé attento come fosse alla guida. Qualche volta appoggiava addirittura una zampina sul volante. L’aria spostata nella corsa a cielo aperto faceva volare le sue orecchie morbidissime, una bianca e l’altra nera, sembrava Snoopy.

Mi seguiva ovunque, nei prati del Gianicolo dove lo portavo a correre, ma anche nei luoghi di lavoro, rimanendo in macchina ad aspettarmi, invariabilmente sul sedile di guida. Oppure qualche volta lo portavo con me in sala montaggio, quando avevo molte ore da passare in moviola. In studio di registrazione no, non era concesso.

A un certo punto però, quando gli impegni professionali s’erano moltiplicati, m’era sembrato di non riuscire più ad occuparmi di lui; e mia moglie da sola non ce la faceva a gestirlo. Un amico ci aveva segnalato un contadino che l’avrebbe preso volentieri perché sembrava che la sua razza fosse adatta alla ricerca dei tartufi. Così un brutto giorno l’avevamo tradito, abbandonandolo in mani estranee e fuggendo come ladri. Ma non ci dormivo la notte. Mac mi mancava, temevo che lo maltrattassero, che gli facessero del male. Un giorno avevo preso la Mini Minor amaranto ed ero corso a trovarlo di nascosto: lo tenevano legato alla catena, era diventato un arruffato cane da pagliaio. Dormiva all’aperto, il pelo era cresciuto folto e duro, solo le orecchie erano ancora morbide come velluto. Quando mi aveva visto era impazzito di gioia e io più di lui. Gli avevo recato in dono una confezione a tubo dei biscotti Ringo che aveva divorato uno dopo l’altro con una famelicità esagerata. Insaziabile di cibo e d’amore. “Giuro che ti vengo a riprendere” gli avevo sussurrato nelle orecchie mentre lui, calmato, si sforzava attentissimo di comprendere le mie parole. Ma i guaiti che avevano accompagnato il momento del distacco mi avevano rimbombato in testa, insopportabili, per tutto il viaggio di ritorno. La sera avevo detto a mia moglie: “Vado a riprendere Mac.” “Va bene” aveva acconsentito lei senza commentare. Aveva capito che ci mancavamo troppo, lui era il mio cane. Due o tre giorni dopo, insieme, facemmo un blitz a fine pomeriggio. Avevo portato un altro tubo di Ringo per quietarlo e impedirgli di manifestare troppo rumorosamente l’incontenibile turbamento. Slacciai la catena e lo rapimmo: appena aprii la portiera della macchina, non so come avesse fatto, era già dentro: con un unico balzo forse di tre metri, un salto da cartone animato, da effetto speciale cinematografico, da disperazione, aveva riconquistato la felicità. Siamo partiti. Era ispido come un botolo sull’aia, ma non si teneva dalla contentezza, andava, veniva, ci leccava dal sedile posteriore, ci baciava, tentava di passare ai sedili anteriori. Poi quando giungemmo a imboccare la superstrada, di botto si stese sul divano e si addormentò. Forse per tutto il tempo dell’esilio non aveva mai dormito, in attesa che tornassimo.

Avvertii un severo biasimo per il mio comportamento inqualificabile: come avevo potuto essere così crudele con una creatura che mi amava tanto.

Da quella volta non ci siamo più separati.

Passarono gli anni. Un giorno, dopo pranzo, siamo usciti per la camminata pomeridiana. Era fine novembre e faceva molto freddo perché si era alzato un potente vento di tramontana, teso e gelato. Da via Vittoria Colonna avevamo attraversato il Ponte Cavour in direzione di via Tomacelli, per proseguire poi lungo via Condotti verso Piazza di Spagna. Salendo la scalinata di Trinità dei Monti in due passi avremmo raggiunto il Pincio, un parco tra i suoi prediletti. Eppure una volta superato il ponte, Mac s’era rifiutato di procedere dritto, e col pelo arruffato dal vento continuava a drizzare il muso verso l’alto, fiutando chissà cosa. “Vuoi cambiare strada? Non ti va di andare a Villa Borghese?” Non gli andava, voleva voltare sulla destra per un’urgente ricognizione del marciapiede sul Lungotevere. Il cielo era terso, con baluginii d’acciaio, quella luce cromata che esiste solo a Roma nei pochi giorni di freddo autentico; stagliati contro l’aria trasparente, di cristallo, i giganteschi platani agitavano le chiome ormai quasi spoglie, a causa anche di quella furia di vento siderale che si incanalava dalle forre appenniniche travagliando la città per tre giorni di fila. Bisognava quasi camminare piegati per contrastare l’urto delle raffiche e rimanere in equilibrio. Mac, molto più leggero di me, zampettava imperterrito, sembrava volasse. “Ma dove devi andare? – Continuavo a chiedergli – Che c’è da quella parte?” Si fermava, voltava la testa guardandomi come dicesse “fidati”, e si rimetteva in marcia annusando insistentemente attorno a sé. M’ero rassegnato a seguirlo, e all’improvviso ero stato investito da una raffica particolarmente violenta, un nugolo mulinante di foglie secche si era alzato dal marciapiede e mi si era incollato addosso con tenacia. Mac s’era fermato e mi guardava scodinzolando, mentre con le mani cercavo di scrollare via quel fogliame che mi impediva persino la vista. Avevo afferrato una foglia che indugiava fastidiosamente sul viso, e staccandola per liberarmene mi ero accorto con sorpresa che non era una foglia, bensì un bigliettone da diecimila lire. A quel gesto, per incanto, il vento si era arrestato, e tutto attorno a me, ai miei piedi, s’era radunato un piccolo cumulo di banconote di vario taglio: 10.000, 5000, 1000 lire. Tutti quei soldi! E di chi erano. Mi ero guardato intorno, ma non c’era nessuno, non un’anima viva a colpo d’occhio, né avanti né dietro di me. Da dove giungeva quel singolare bottino. Mac scodinzolava e abbaiava in sordina, come fanno i cani quando vogliono comunicare qualcosa di molto riservato, un segreto che conoscono soltanto loro. Alquanto esitante mi ero chinato a racimolare qualche banconota, timoroso che qualcuno mi scorgesse, minacciandomi, accusandomi di appropriazione indebita. Ma a quel punto, rassicurato dal misterioso vuoto che si era creato intorno a me, prima che il vento riprendesse a fischiare avevo iniziato a raccogliere più soldi che potevo, arraffavo fasci di cartamoneta e me l’infilavo in tasca il più in fretta possibile. Sembravo Totò all’assalto degli spaghetti al ragù nella scena famosa di “Miseria e nobiltà”. Indossavo un eskimo di moda a quei tempi, dai tasconi profondi a soffietto: afferravo a manate e incameravo in preda a un’irrefrenabile agitazione, mentre Mac mi girava intorno allegramente, presidiandomi da esperto guardaspalle. Poi, con calma, aveva ripreso la direzione trotterellando soddisfatto: io lo seguivo chinato spudoratamente a quattro zampe come lui, e rastrellavo senza posa i fogli di maggior taglio, agguantando invece a mucchi scomposti le carte da mille.  Mi aspettavo che da un momento all’altro sopraggiungesse strombazzando una macchina a reclamare il maltolto, ma intanto stipavo nelle tasche anche della giacca e dei pantaloni. Da dove proveniva quel denaro? Un malvivente che s’era disfatto all’ultimo momento della rapina? Un portavalori a cui s’era spalancato lo sportello del furgone senza che se ne fosse accorto? Non lo sapevo e non lo avrei mai appreso in seguito, per quante congetture avessi almanaccato sia sul momento che nei giorni successivi. La mattina presto, uscendo per la prima passeggiata con Mac nei giardini della Mole Adriana, aprivo il giornale per scrutare in cronaca qualche notizia relativa a uno smarrimento di denaro, lecito o illecito che fosse. Nessuna traccia, neppure un trafiletto. Mac mi fissava sornione e io lo rassicuravo: “Non ti hanno scoperto, per ora nessuno verrà ad arrestarti, ma stai accorto, non ti tradire.” E l’agente Mackintosh rideva rivelando col movimento della coda di saperne assai più di me. Alla fine lasciai perdere e smisi di preoccuparmi.

Quel dono a sorpresa era stato innegabilmente opera sua, forse voleva ripagarmi per non averlo condannato ad abbrutirsi come un cane da pagliaio, e averlo ripreso con me nel calore del nucleo familiare, con la prospettiva di continuare a divertirci insieme finché fosse durata, da veri mascalzoni. Eravamo proprio entrati a far parte di un fumetto, due personaggi da comic book, da cartoon: Pluto e Topolino, Walt Disney sarebbe stato orgoglioso di noi. In ogni caso per sicurezza, avevo versato il malloppo in banca e pace. Se è vero che “carmina non dant panem”, così ammoniva la massima di Orazio, io certo non sfuggivo alla regola: scrivere è magnifico ma da lì a guadagnare per vivere ne passa. Il mio cane aveva voluto darmi una mano, si era strapagato la pensione a vita.

Quando è morto, parecchi anni dopo, nessuno mi toglieva più dalla testa che Mac fosse stato il mio angelo peloso. I cani lo sono quasi sempre, arrivano con quella stessa immotivata lievità. Così mi ero incaponito su una convinzione che ora posso confessare senza esitazioni, o il timore di essere considerato un mitomane.

Superati i dieci anni Mac era stato colpito da un cancro alla prostata. Avevo provato di tutto per salvarlo, la consueta via crucis per veterinari che qualche lettore avrà sperimentato con poca o scarsa fortuna. In fondo a chi importa di un cane? Soltanto al padrone, per gli altri è un’animale senza alcun valore. A quel tempo stavo leggendo uno dei libri più importanti della mia vita, “Le memorie di Adriano”, di Marguerite Yourcenar. Il romanzo mi aveva talmente catturato che non riuscivo a separarmene, lo finivo e lo ricominciavo da capo. Leggevo di Antinoo, il bellissimo ragazzo di cui si era innamorato l’Imperatore Adriano, ricordate?. l’autore dei versi immortali “Animula vagula blandula hospes comesque corporis …”* L’augusto statista romano aveva conosciuto l’efebo in Bitinia e il giovane era diventato presto il suo favorito. Tuttavia, mentre erano in Egitto, Antinoo non ancora ventenne si era tolto la vita, verosimilmente un suicidio sacrificale, nella convinzione che così facendo avrebbe donato, e aggiunto, il numero dei propri anni alla vita del personaggio a cui si era consacrato per amore. Una ferita insanabile per Adriano, il quale al fine di rendere immortale il suo amante ne aveva istituito il culto fondando una città in suo nome, Antinopoli. E statue di Antinoo sono ancora rinvenibili ovunque nel bacino del Mediterraneo.

Più modestamente, ma con non minore insania, avevo pensato che Mac, attraverso chissà quali imperscrutabili circuiti mentali, aveva sviato su di sé la malattia mortale a me destinata. Non so perché avessi concepito una tale bizzarra enormità, ma credo, oggi sono sicuro, sia stato a causa del suo sguardo, dei suoi occhi umidi e fiduciosi fissi nei miei, quando l’avevo condotto dal veterinario che avrebbe messo fine ai suoi giorni. Lui lo sapeva che stava per succedere qualcosa di terrificante, era consapevole di non rivedermi più. Il suo sguardo innocente, da abbacchietto, non sarebbe mai più scomparso dalle mie pupille.

* Animuccia vagabonda, leggiadra, ospite e compagna del corpo…


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21