Maria Occhipinti: una donna contro la guerra

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Quando abbiamo pensato di dedicare l’ultimo lunedì del mese di febbraio a Maria Occhipinti per “Dalla parte di Lei” non avevamo immaginato che ci saremmo trovate davanti a una brutale aggressione, a un atto di guerra della Russia di Putin contro l’Ucraina: una violazione del diritto internazionale. Al popolo ucraino un pensiero dolente e di solidarietà. Diventa, questo profilo raccontato da Adriana Chemello, un contributo alla riflessione sulla guerra e sulla pace, sulla necessità di scardinare un nesso politica-guerra per costruirne un altro politica-pace. È l’incipit del racconto che ci propone alcuni passi di Pensieri di pace durante un’incursione aerea di Virginia Woolf.

Tacciano le armi. Chi fa la guerra dimentica l’umanità” ha detto in questi giorni Papa Francesco.

Chi fa la guerra la pensa senza corpi, per questo le donne sono “estranee” alla guerra, sono più corpo degli altri, non l’hanno pensata né organizzata la guerra. Virginia Woolf lo spiega ne Le tre ghinee, rispondendo a un appello di intellettuali che le chiedevano cosa fare per prevenire la guerra (che scoppierà il primo settembre del 1939). Intreccerà una riflessione di grande attualità tra la condizione delle donne e la costruzione della loro libertà (istruzione, lavoro, accesso alle professioni) con la necessità della pace che però va pensata e costruita giorno per giorno, “Io in quanto donna non ho Patria in quanto donna la mia patria è il mondo intero”. Nel 1938, appena uscito il libro, scriverà nel suo diario: “…l’intero mondo trema: il mio libro sarà forse come una farfalla sopra un falò consumato in meno di un secondo …”.

E invece continuerà la sua riflessione, come ci racconta Adriana, indicandoci il percorso per costruire davvero un mondo di pace.

Costruire un “pensiero” una cultura di pace diffusa e rivolta a tutti. Compiere gesti concreti come quello di Maria (e anche delle donne della Ragnatela partite da Cardiff passando per Greenham Common fino a Comiso e poi da Londra a Roma da Berlino a Bruxelles) che Adriana racconta con intensità, azioni che vadano oltre la protesta importante ma non sufficiente. Un esempio: sostenere e far camminare l’appello di 50 premi Nobel (tra i quali: Giorgio Parisi, Carlo Rovelli e Carlo Rubbia) rivolto ai governi di tutti gli Stati delle Nazioni Unite per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni. Con quelle risorse “prendersi cura” del pianeta e delle disuguaglianze insopportabili.

La spesa militare, a livello globale, è raddoppiata dal 2000 ad oggi, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari statunitensi all’anno.

La corsa agli armamenti conduce a un’unica conseguenza: lo scoppio di guerre sanguinose e devastanti. Come questi giorni ci confermano, così come le tante guerre cosiddette locali.

È un problema molto serio questo della produzione di armi che va affrontato: verso la non proliferazione, scelta necessaria se vogliamo costruire la pace, rispettare e attuare l’Articolo 11 della nostra Costituzione “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali: consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni…”.

MGG

di Adriana Chemello

In questi giorni in cui soffiano paurosamente venti di guerra sulle nostre teste, ho riletto le lucide riflessioni che Virginia Woolf, nell’agosto del 1940, affidava ad un saggio breve dal titolo: Pensieri di pace durante un’incursione aerea. Sono pensieri che nascono in presa diretta, mentre gli aerei Luftwaffe della Wehermacht tedesca scorrazzavano sopra il cielo di Londra, scaricando il loro micidiale paniere di bombe.

Virginia Woolf si interroga in che modo sia possibile «lottare senza armi per la libertà» e trova subito la risposta: «Possiamo lottare con la mente; fabbricare delle idee». E aggiunge: «Lottare mentalmente significa pensare contro la corrente e non a favore di essa». Procedendo nella sua riflessione viene catturata dalla parola “disarmo” che sente ripetere come condizione imprescindibile per la pace («Non ci saranno più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani non saranno più addestrati a combattere con le armi»). Ma Virginia è consapevole che il “disarmo” non può avvenire per mero automatismo: deve essere preparato con gradualità, esige una trasformazione sociale, economica e delle coscienze, in parole semplici è necessario far mettere radici ad una forma mentis alternativa a quella dominante: «Dobbiamo aiutare i giovani […] a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, l’inconscio hitleriano. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi […] aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fabbricare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione».

Nel frattempo è necessario far inceppare la macchina bellica, mettere quel granello di sabbia in grado di bloccare – magari temporaneamente – tutto l’ingranaggio. A volte basta un piccolo gesto imprevisto e imprevedibile, un semplice atto di disobbedienza come quello compiuto da Maria Occhipinti, protagonista nel gennaio 1945 di una forma di resistenza popolare passata alla storia come la «rivolta dei non si parte».

Ecco come la racconta la protagonista nella prima parte della sua autobiografia, intitolata Una donna di Ragusa: «La mattina del 4 gennaio verso le 10, mentre stavo lavando, mi sentii chiamare dalle donnette del mio quartiere che gridavano: “Venite, venite sullo stradone, comare, voi che sapete parlare, voi che vi fate sentire e avete coraggio, venite a vedere che gran camion che c’è e si sta portando i nostri figli”. […] All’incrocio dello stradone (corso Vittorio Emanuele) con via iv Novembre, mi trovai dinanzi al camion, seguita dalle altre donne. Ci avvicinammo agli sbirri, che erano armati, cercando di persuaderli: “Lasciate i nostri figli, per carità, lasciateli”. […] Allora urlai: “Lasciateli!” e mi stesi supina davanti alle ruote del camion. “Mi ucciderete, ma voi non passate”. Un soldato fece: “Passiamoci sopra, non possiamo infrangere gli ordini”. Le donne gridarono: “È incinta da cinque mesi, non le fate male, per carità!”. I poliziotti mi rialzarono da terra e cercarono di convincermi a tornare a casa, che i giovani li portavano al distretto e poi li rilasciavano subito» (Una donna di Ragusa, pp. 88-89).

Donna del popolo, appena alfabetizzata, con una formazione da autodidatta e un innato senso della giustizia, Maria Occhipinti in quel lontano 4 gennaio 1945, a Ragusa, quando i camion militari stavano compiendo un rastrellamento a tappeto di tutti gli uomini abili alle armi, pur essendo incinta di cinque mesi, non indietreggiò ma si stese supina davanti alle ruote di un camion, costringendolo a fermarsi e dando così il via alla renitenza generalizzata dei giovani della sua città. È stato il suo NO alla guerra.

Fin da giovanissima, pur priva di strumenti culturali, aveva percepito la necessità di capire come funziona il mondo e il desiderio forte di stare nel mondo con consapevolezza. Dal suo limitato e decentrato osservatorio paesano aveva notato le ingiustizie sociali, le prevaricazioni dei ricchi sui poveri, i privilegi di cui godevano i notabili del paese.

Idealista ingenua, formatasi sulla lettura dei Miserabili, libro ricevuto in prestito dal medico del paese, era stata catturata da un umanesimo di impronta socialista e francescana insieme: nella giovinezza aveva scritto a Mussolini per informarlo dei soprusi che spesso la gente del popolo era costretta a subire dai notabili locali. Nella sua ingenuità era convinta che Mussolini avrebbe punito i prevaricatori e riportato la giustizia sociale; ma poi venne la guerra, poi lo sbarco degli Americani in Sicilia, e l’armistizio dell’8 settembre che, nel suo orizzonte di senso avrebbe dovuto rappresentare la fine della guerra. Invece i giovani, ritornati fortunosamente alle loro famiglie dopo l’8 settembre, venivano richiamati alle armi con una nuova cartolina precetto che, ai suoi occhi, rappresentava un inaudito sopruso.

Così, quando le vicine di casa, spaventate per i camion militari con i soldati armati che andavano a scovare i giovani renitenti, si rivolsero a lei chiedendole aiuto, agì d’impulso e s’interpose con il suo corpo per bloccare un ordine ingiusto, perché le donne non volevano più la guerra, non volevano mandare i loro figli e mariti a morire.

Quel gesto di disobbedienza civile le cambiò la vita, le costò il carcere, il confino a Ustica dove l’8 marzo nacque la figlia Marilena, numerosi processi, il ripudio della famiglia d’origine, l’abbandono da parte del marito, e la costrinse per il resto della vita ad un’esistenza nomade, da migrante, come si dice oggi, con spostamenti continui e spesso improvvisi, dall’Italia alla Svizzera, da Parigi a Londra e poi oltre oceano, dal Canada agli Stati Uniti, sempre alla faticosa e precaria ricerca di un «pane amaro» per sé e la figlia.

Quella di Maria Occhipinti è una figura non catalogabile, che sfugge ad ogni possibile e scontata definizione: una “ribelle” e una “passionaria”, che rivendica il diritto di parola e pretende ascolto, capace di trasformare il suo sentire in azione, di creare disordine pur di svegliare le coscienze assopite di fronte a quella grande catastrofe per l’umanità che è la guerra.

Donna fiera, dignitosa ma coraggiosa e intraprendente è stata definita da Carlo Levi una «donna siciliana, singolare nei fatti e nelle passioni e nel carattere … così naturalmente intelligente», la cui «rivolta individuale diventa spirito di giustizia, […] coraggio, intrepidezza, senso di grandezza».

Nata e cresciuta in un mondo legato alle tradizioni arcaiche di una rigida società patriarcale, che non le ha perdonato la sua trasgressione e l’infrazione allora impensabile delle sue regole (pensiamo, qualche anno più tardi allo scompiglio generato dal rifiuto di Franca Viola di sposare il suo sequestratore), ha sempre pagato di persona e a caro prezzo le sue scelte, senza mai accettare compromessi o patteggiamenti.

Si è definita «una libera pensatrice, fuori da ogni setta politica» e ha saputo conservare per tutta la vita la voce dolce e profonda della profetessa, mentre il suo volto mistico e dignitoso sapeva comunicare una «saggezza» ed «autorevolezza» che ne hanno fatto il riferimento sicuro per altre donne. Maria, come in anni più recenti la giovane Rita Atria che ha infranto il codice omertoso della mafia, ha segnato con la sua vita un punto di non ritorno, producendo scompiglio con le sue idee intrise di anarchismo, socialismo libertario e carità evangelica, ma da «pioniera» ha indicato la via della ricerca di una autentica libertà alle altre donne, partendo dalla sua opposizione alla guerra.

La figura di Maria Occhipinti mi è venuta incontro leggendo le pagine di Una donna di Ragusa (nell’edizione Feltrinelli del 1976). Un amico me l’aveva segnalato, anzi mi aveva messo tra le mani il libro. Si trattava della “storia di vita” di una donna del Sud, una testimonianza di opposizione alla guerra e alle sue logiche di morte. Rimasi affascinata dalla carica umana e dalla forza morale di quella donna, pur non conoscendo nulla di lei, al di là delle informazioni ricavate dalla lettura del libro. Ne scrissi subito una recensione. Qualche anno dopo, nel Natale del ’79, un quotidiano nazionale riportava in un trafiletto la notizia del suo sit-in ad oltranza davanti al Quirinale, per protestare contro gli espropri di terre ai contadini ragusani. Ricordo ancora il titolo di quell’articolo: Pane e olive al Quirinale.

Poco tempo dopo, un lungo servizio su «Noi Donne» parlava di lei, della sua azione di resistenza del gennaio 1945 e delle sue lotte a fianco degli umili e degli sfruttati. Decisi che dovevo conoscerla. Così, attraverso la redazione di «Noi Donne», entrai in contatto con lei. Rispose con entusiasmo alla mia richiesta di un incontro che avvenne a Roma, nell’appartamento di Monte Mario che allora divideva con la figlia Marilena. Tra noi ci fu subito una forte corrente di empatia, di condivisione di idee e di valori. Diventammo amiche e mantenemmo stretti rapporti, con una fitta corrispondenza in cui ci scambiavamo progetti ed esperienze.

Ricordo il suo coinvolgimento con il gruppo di donne del Movimento Nonviolento che aveva lanciato una campagna contro il servizio militare femminile proposto dall’allora ministro della difesa (Falco Accame). Venne stampato un manifesto dove erano illustrate le ragioni del rifiuto, e venne organizzata, in diverse città d’Italia, una raccolta firme a sostegno di questa campagna. Fu lei, assieme a Hedy Vaccaro una pacifista storica italiana del Movimento internazionale di Riconciliazione, a consegnare in Parlamento, nelle mani della Presidente della Camera Nilde Jotti, le numerose firme raccolte, affinché si facesse interprete del dissenso e della contrarietà di tante donne nei confronti di quel disegno di legge, allora in discussione in Aula. Era un modo per smontare le narrazioni canoniche del militarismo che fagocitava anche le donne nella sua spirale di violenza e sopraffazione, ammantandola di una presunta parità. In quella circostanza fu determinante il lavoro di mediazione svolto da Giancarla Codrignani (allora parlamentare del gruppo della Sinistra indipendente eletti nel PCI), da sempre attenta alle istanze degli obiettori di coscienza, dell’antimilitarismo e dell’opposizione alla guerra.

Pur avendo una formazione da autodidatta, avendo accumulato letture rapsodiche e occasionali, Maria aveva una forte tensione a conoscere, una curiosità onnivora che la spingeva a cercare di capire il mondo e i meccanismi di potere che lo sorreggono. E seppur in modo un po’ ingenuo ma passionale e coinvolgente aveva capito dove posizionarsi nel mondo e soprattutto era capace di elaborare un pensiero autonomo, obbedendo solo alla sua coscienza (come diceva Gandhi «l’unico tiranno al mondo che posso accettare è la mia coscienza»).

Negli anni ’70, rientrata in Italia dopo le sue peregrinazioni oltreoceano, sempre alla ricerca di un luogo che placasse le sue inquietudini esistenziali e le garantisse un minimo di sicurezza economica, aveva incontrato il femminismo napoletano e romano: lo attesta la copertina di «Effe», la prima rivista del movimento femminista italiano, dove ritroviamo il suo volto tra la schiera di donne in cammino, riprese nella copertina.

Negli anni ’80, ritorna nella sua terra di origine e la ritroviamo a Comiso, nel suo spendersi appassionato per costruire la pace, a sostenere il movimento contro l’installazione dei missili Cruise, assieme ad Anna Luisa L’Abate e alla sua famiglia, accompagnando, almeno sul piano simbolico, quella bellissima comunità femminista pacifista che è stata La Ragnatela (di cui bisognerebbe raccontare la storia prima che se ne disperda la memoria). Il suo ultimo discorso pubblico l’ha tenuto a Comiso nell’agosto 1987, davanti alla base militare che doveva ospitare i missili, con a fianco la sorella, a significare l’avvenuta riconciliazione con la famiglia d’origine e nel ricordo di quel lontano evento del gennaio 1945.

L’autobiografia Una donna di Ragusa ha avuto a tutt’oggi quattro edizioni, rispettivamente nel 1957 (Landi editore), nel 1976 (Feltrinelli), nel 1993 (Sellerio) e l’ultima nel 2021 (Sicilia Punto L). È interessante osservare le prime due edizioni, sfogliandole a distanza di tempo, per avvertire le diverse letture che ne sono state fatte. La prima edizione del 1957 è accompagnata da una Nota di Carlo Levi che sottolinea il valore forte del «documento», della «vicenda individuale», nonché della «verità implicita» nel racconto dei fatti veri raccontati dai protagonisti. Gli anni ’50 sono gli anni delle ‘storie di vita’ dei contadini raccolte da Rocco Scotellaro, delle esperienze nonviolente di Danilo Dolci nella Sicilia Occidentale. Voci perdute da far riemergere dall’oblio della storia. Carlo Levi è consapevole della novità e della singolarità del libro di Maria che «guarda alle donne della sua terra, che non si sono ribellate come lei». La Prefazione di Enzo Forcella, che accompagna l’edizione del 1976, si preoccupa invece di storicizzare, ricontestualizzandolo, il fenomeno dei «non si parte», restituendolo alla verità storica di rivolta popolare contro la guerra.

Ma le due edizioni hanno anche un’altra vistosa differenza, simbolicamente rilevante: la prima edizione è dedicata al padre; la seconda è dedicata alla figlia («A mia figlia / che ha dovuto subire con me, / e più di me, tante ingiustizie»).

Dopo l’autobiografia, a trent’anni di distanza, Maria è tornata alla scrittura, con una manciata di racconti che ne sono in parte la prosecuzione, Il carrubo e altri racconti (Palermo, Sellerio, 1993), dove riporta piccoli episodi di vita minuta che rinviano direttamente al vissuto esperienziale di chi scrive.

Maria non ha mai smesso per tutta la vita di esercitare la sua libertà, per questo la continuazione della sua autobiografia, uscita postuma nel 2004, s’intitola Una donna libera (a cura di G. Grassi. Con una Nota di Marilena Licitra Occhipinti, Palermo, Sellerio, 2004). È un libro che va letto come ulteriore testimonianza di un percorso esistenziale lineare e coerente, nei suoi continui sconfinamenti di migrante alla ricerca di un lavoro ma soprattutto di relazioni d’amore e di cura. Perché Maria, come in quel lontano 4 gennaio 1945, ha saputo veramente “prendersi cura” di chi le stava intorno, a cui comunicava amore e pace, e dell’umanità intera con la sua appassionata opposizione alla guerra.

Negli ultimi anni per lei molto dolorosi, provata nel corpo da una malattia invalidante, mi aveva affidato, in vista di una eventuale pubblicazione, un centinaio di fogli dattiloscritti dove aveva condensato l’essenza del suo pensiero. Nonostante iterati tentativi non ero riuscita a trovarne una adeguata collocazione editoriale, ma conservo gelosamente quei fogli che ora l’amorevole tenacia della figlia Marilena ha finalmente trasformato in libro (M. Occhipinti, Anni di incessante logorio. Pensieri poetici, Prefazione di A. Chemello, Ragusa, Sicilia Punto L, 2016).


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