Articolo21. Le battaglie di allora sono le stesse di oggi, ma il mondo è cambiato

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Il 27 febbraio del 2002 Silvio Berlusconi governava il paese con una opposizione ancora frastornata dall’andamento delle precedenti elezioni e, come sempre, profondamente divisa. Pochi giorni prima a Piazza Navona, dopo una piccola manifestazione, in cui i presenti avevano sentito parole di speranza da Francesco Pardi e da Giovanni Bachelet, c’era stato l’urlo di Nanni Moretti contro “questi dirigenti politici con cui non vinceremo mai!”.

Il cosiddetto editto bulgaro era partito e alla Rai si preparava l’estromissione di Enzo Biagi, di Michele Santoro e di altri artisti e giornalisti scomodi per il governo di centro destra. L’anno successivo De Bortoli sarebbe stato costretto a lasciare il Corriere della sera.

Il problema, del tutto evidente a noi giornalisti e al mondo della cultura e dello spettacolo, veniva vissuto come marginale dalla politica, compresa quella dell’allora opposizione. In quelle settimane Beppe Giulietti, Federico Orlando, Tommaso Furfaro – instancabile organizzatore – e alcuni altri già lavoravano a un a cosa che identificavano “come Fiesole”. Nel senso che si capiva la pericolosa china verso la quale si stava andando, silenziamento del dissenso, cancellazione delle testate più scomode, sparizione delle notizie sul disagio sociale e sulle marginalità perché l’Italia doveva essere solo feste, ristoranti pieni, calciatori e veline, Costa Smeralda e Forte dei Marmi, dove cominciavano peraltro ad arrivare gli oligarchi di Putin . E ci si stava andando con il problema dei giornalisti intimiditi, divisi politicamente, incerti sul da farsi, in larga parte titubanti, con le eccezioni e le punte di diamante che nella categoria ci sono sempre state.

Ma serviva un risveglio complessivo della nostra categoria per tornare a occuparsi di crimini mafiosi, povertà, morti sul lavoro, licenziamenti, delocalizzazione delle fabbriche, invalidi, tagli ingiustificati nelle scuole e negli ospedali, mentre uno degli slogan del governo era “con la cultura non si mangia”.

Articolo 21 è nato per questo, è stato immaginato e organizzato fra pochi, in stanzette improbabili, in una stagione in cui si mandavano gli sms ma non esistevano i social e whatsapp, ma in pochi giorni è diventato una grande delegazione che partecipò nel mese di marzo alla storica manifestazione organizzata dalla CGIL di Sergio Cofferati al Circo Massimo a Roma, che fermò al momento la cancellazione dell’articolo 18 e fece ripartire anche tutte le forme di contrasto al governo Berlusconi.

Non so quante riunioni abbiamo fatto in questi anni, a quante manifestazioni siamo stati e quante ne abbiamo organizzate e promosse, diventando anno dopo anno un  presidio sul territorio, con associazioni regionali attivissime e piene di creatività e iniziativa. E poi i concorsi nelle scuole ideati da Renato Parascandolo, il premio Paolo Giuntella, le targhe, i riconoscimenti, le campagne, i corsi di formazione, e negli ultimi tempi un grande e importante impegno sul versante internazionale.

Purtroppo è vero che, venti anni dopo, dello stimolo e dell’attività di Articolo 21 c’è ancora bisogno e perfino più bisogno. Abbiamo sognato anno dopo anno un mondo migliore, ne abbiamo uno peggiore, che sta annullando il valore della vita e che stenta a riconoscere i danni provocati ovunque dalla globalizzazione liberista, e il tragico divario fra quelli che da sempre, nel vangelo come nel corano, si chiamano i ricchi e i poveri. A questo ventennale arriviamo senza molti, troppi, compagni di strada che se ne sono andati ma ci hanno lasciato nei cuori e nel modo di essere insegnamenti fondamentali: da Federico a Roberto, da Santo a Paolo, a Raffaele, a David e purtroppo a tanti altri.

Ora Articolo21 riunisce persone di ogni età, di generazioni diverse, di professionalità diverse e in questo siamo migliori di venti anni fa. E’ un traguardo importante, i giovani colleghi sanno che possono contare su questo punto di riferimento.

Diamoci l’obiettivo di esserci ancora per molto tempo, ma per compiacerci dei risultati ottenuti, in una Italia e in un mondo che, con fatica, vogliamo continuare a immaginare migliore. Almeno un po’.


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