Caso Daniele Paitoni: bambino ucciso dal padre già dimenticato, ma le responsabilità collettive rimangono

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Sono passati solo venti giorni da quando la notte di capodanno Davide Paitoni, 40 anni, ha ucciso il figlio di 7 anni con una coltellata alla giugulare dopo avergli conficcato uno straccio in gola e avvolto la bocca con il nastro isolante per coprire le urla. Tre settimane per consumare l’ennesimo fatto di cronaca nera sui giornali, e poi anche lui è svanito nel nulla. Come tutti gli altri, dimenticato tra le scartoffie di un tribunale che forse adesso farà giustizia solo perché c’è scappato il morto. L’ennesimo. Io però il piccolo Daniele, rimasto da solo col padre perché qualcuno glielo aveva permesso malgrado l’alto fattore di rischio, non me lo dimentico e fatico a scrivere su questa vicenda perché simile a tante altre che non ho mai dimenticato. Come quella di Federico Barakat, ucciso a 9 anni con 37 coltellate, Francesca e Pietro Pontin morti a 15 e 13 anni con 3 minuti di pugnalate, i gemelli Elena e Diego Bressi di 12 anni, strozzati a mani nude nel sonno, i fratellini Andrea e Davide Iacovone, prima strangolati e poi carbonizzati, Matias Tomkov, ucciso a 10 anni con un fendente alla gola, Ismaele e Sami Dhari di 2 e 5 anni, ammazzati con un coltello da cucina: bambini che avevano ragionevolmente paura di un padre che alla fine li ha uccisi per punire le mogli e le compagne che cercavano di sottrarsi al controllo di un partner violento.

Violenza istituzionale

Donne che spesso, per mettersi a riparo dalla violenza che hanno in casa, incontrano una violenza più grande, più temuta, più implacabile, più inaspettata: la “violenza istituzionale” che le espone, insieme ai loro figli minorenni, a punizioni ancora più devastanti (indagata nella video inchiesta “Crimini invisibili” su donnexdiritti.com). Un’esposizione causata da un’errata valutazione del rischio proprio da parte di quelle istituzioni che dovrebbero proteggerle, e che invece non sanno ancora oggi distinguere una conflittualità di coppia da una violenza domestica, mettendo così in ulteriore pericolo soggetti già minacciati. Un rischio sottovalutato che spesso culmina nell’uccisione della donna ma anche di quei figli considerati dai maltrattanti come validi “strumenti” di vendetta e che, come insegna Marcela Lagarde, diventano un mezzo per acuire tutte le violenze che una donna può subire fino a «l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa ma anche dei figli», andando a collocare questi casi sotto il termine “femminicidi”.


Morti prevedibili ed evitabili

La dinamica è sempre la stessa: quella messa in atto da Patrizio Franceschelli, che nel febbraio del 2012 ha buttato giù da Ponte Garibaldi a Roma il figlioletto di 16 mesi per vendicarsi della madre che si era sottratta alla sua violenza; Roberto Russo, che con un coltello ha ucciso la figlia di 12 anni e ferito la maggiore di 14 anni; Massimo Maravalle, che ha soffocato il figlio di 5 anni tappando con una mano il naso e con l’altra la bocca (disegnato poi dai media come «genitore affettuosissimo»); Sisto De Martin, che ha ucciso la moglie e il figlio fracassando la testa a lei e tagliando la gola a lui; e infine Gianpiero Mele, il 28enne che ha ucciso il figlio di due anni, descritto dai media come «un ragazzo dalla faccia pulita». Casi che, come quello di Varese, non solo erano prevedibili ma anche evitabili al 100%. Chi non ricorda Alessia e Martina che a 13 e 7 anni sono state freddate nel sonno a Cisterna di Latina con un colpo di pistola dal padre carabiniere, Antonio Capasso, dopo che la mamma, Antonietta Gargiulo, si era separata, aveva denunciato e allertato sia i servizi sociali che i colleghi dell’ex? Una donna che aveva anche cambiato la serratura della porta di casa, dopo aver cacciato il marito maltrattante da cui si stava separando. Eppure era servito a qualcosa? Non mi sembra, perché nessuno, malgrado gli avvertimenti, aveva fatto nulla per fermare Capasso.


Omicidio di Varese

Il caso di Varese però è ancora più grave, perché qui non solo Silvia Gaggini, la mamma di Daniele, aveva denunciato le violenze del marito e avviato una separazione avvalendosi di un avvocato (quindi senza cercare di gestire la situazione da sola e chiedendo aiuto), ma Davide Paitoni aveva tentato di uccidere un collega, dimostrando tutta la sua pericolosità e al di là di tutte le giustificazioni che i magistrati possano dare, si tratta di una evidente omissione nella valutazione del rischio che nei fatti, è risultata fatale per il piccolo Daniele. Un’evidenza senza possibilità di fraintendimento che non è stata valutata non perché non c’è stato collegamento tra la Procura e il Tribunale di Varese, ma per il solito assurdo concetto per cui un uomo pericoloso, un uomo violento, può essere comunque un buon padre. Un fatto aggravato dal tentativo di scaricare la responsabilità di una morte evitabile, quella del piccolo Daniele, alla madre che non si è opposta alle visite del padre violento solo e semplicemente perché nessuna madre si può azzardare a contestare il parere di un giudice in materia di affido, in quanto rischia di perdere completamente il figlio in quanto “ostativa”.


Bambini sottratti

In questo caso ci sono due fattori da valutare. Il primo è il totale disconoscimento della violenza domestica nei tribunali italiani, come dimostrato già dai primi due report della Commissione Femminicidio al Senato presieduta dalla senatrice Valeria Valente, in cui si attesta che nella quasi totalità le donne che denunciano un marito maltrattante e pericoloso, non solo non vengono credute ma addirittura punite dagli stessi giudici con la sottrazione dei figli in quanto accusate di falsità con denunce che spesso, quando arrivano sul banco dei tribunali civili, vengono fatte ritirare con la minaccia di far chiudere i bambini in casa famiglia. Il secondo fattore è lo sbilanciamento di valutazione genitoriale che in questo caso è lampante: ovvero perché a una madre che viene accusata “alienante”, “ostativa”, “simbiotica”, “istrionica”, “malevola” sulla base di una perizia psicologica e senza uno straccio di prova di pericolosità oggettiva, il bambino viene sottratto e definitivamente privato della figura materna per essere rinchiuso in una struttura o affidato al padre di cui ha paura, mentre di fronte a un padre che ha tentato di uccidere un uomo, quindi con prove oggettive e riscontrabili, un giudice non solo gli permette di vederlo ma addirittura di tenerlo da solo con sé malgrado sia ai domiciliari?


Cosa accade in Spagna

In Spagna usare i figli come arma di ricatto da parte dell’ex maltrattante viene definita come “violenza vicaria” e la cosa che stupisce è che in Italia, come in altri Paesi, quella che doveva essere un’evoluzione, cioè la legge 54 sull’affido condiviso, sta diventando un mezzo per estendere la violenza vicaria in maniera esponenziale attraverso le istituzioni che dando man forte all’ex violento, danno luogo a quel fenomeno noto come “violenza istituzionale” che ormai si estende a macchia d’olio in moltissimi Paesi che applicano la bigenitorialitàcome se fosse un diktat ma solo sulla figura paterna. Casi in cui la donna che denuncia e che si vuole separare per sottrarsi ai maltrattamenti o agli abusi subiti anche dai figli, non solo non viene creduta ma viene banalizzata, non presa in considerazione nei suoi riferiti, spesso derisa o minacciata, in una realtà che viene manipolata attraverso consulenze tecniche d’ufficio con psicologi che dichiarano, senza alcun dubbio, che è la donna a essere responsabile del rifiuto del bambino. E il magistrato che nel caso di Varese dichiara che è stata la madre ad accompagnare il figlio dal padre, e che quindi non c’era nessun pericolo evidente, dimostra quanto sia forte ormai nei tribunali la tendenza a colpevolizzare le donne che possono fare ben poco quando si trovano schiacciate in questo meccanismo istituzionale in cui non c’è via d’uscita e dal quale, nel momento in cui si oppongono, vengono severamente punite con la perdita del figlio e con multe salate.

Stereotipi

Lo stereotipo della donna “malevola” è così forte da aver superato anche i precetti di Richard Gardner, che ha costruito l’impalcatura di quella psichiatria “spazzatura” per cui se un figlio rifiuta un padre abusante è sicuramente la madre “a metterlo su”, per arrivare a un’equazione perfetta dove se una donna denuncia una violenza in famiglia, quella sarà sicuramente falsa per cui non c’è bisogno neanche di indagare: al limite si archivia. Fatti su cui dovremmo riflettere attentamente chiedendoci: perché allora dire alle donne di denunciare se poi non vengono neanche prese in considerazione?

Riforma Cartabia

La riforma Cartabia, che su questa questione degli affidi ha cercato di mettere mano, ha iniziato in qualche modo ad arginare il problema imponendo ai giudici di prendere in seria considerazione le allegazioni di violenza delle donne, l’ascolto del minore, il divieto di teorie ascientifiche, della mediazione in presenza di violenza domestica, e la formazione dei magistrati che ancora oggi non sanno riconoscere una dinamica di maltrattamento in famiglia. Un approccio che rischia di essere depotenziato da alcuni punti cruciali, come l’automatica nomina del curatore speciale per il minore anche nel caso ci sia solo una richiesta di decadenza della responsabilità genitoriale, la delega all’ascolto del bambino, che invece deve essere ascoltato esclusivamente dal giudice, multe salate al genitore che non porta il figlio all’altro (magari proprio perché il piccolo ha paura come nel caso di Varese o di tanti altri), e infine l’introduzione di qualifiche professionali assenti dall’ordinamento istituzionale come la psicologia giuridica (che ormai sforna solo psicologi formati sulla teoria ascientifica dell’alienazione parentale che è alla base della violenza istituzionale).
Più interessante, dal punto di vista legislativo, il progetto di disegno unico alla camera in cui varie proposte di legge (di cui parleremo più avanti) stanno per essere messe insieme riguardo affidi e violenza domestica, anche se il problema a oggi non sono neanche le norme, che già esistono in abbondanza, ma la loro non applicazione, come nel caso della Convenzione di Istanbul, o la loro applicazione arbitraria, come nel caso della bigenitorialità.

Fonte: https://27esimaora.corriere.it/22_gennaio_18/omicidio-varese-daniele-ucciso-dimenticato-responsabilita-collettive-e7c16c30-783a-11ec-a8ac-96a31330ed9e.shtml


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