L’arrivo a Palermo del collega Hedayatullah e della sua famiglia

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La gioia non conosce barriere o muri, la spontaneità del suo linguaggio è internazionale e traspare dai volti e dagli sguardi di chi la ritrova dopo quattro mesi vissuti nel terrore. E’ in quella lingua universale che Muizz, un bambino di Kabul di sei anni e la sorellina Arsheian di quattro, hanno espresso il loro ringraziamento all’Italia al loro arrivo a Palermo, dove sono giunti con la mamma, il papà, la nonna ed altre cinque persone il 13 dicembre scorso, con un volo proveniente da Islamabad. Muizz e Arsheian sono i figli del giornalista Hedayatullah Habib Mansoor, che il 20 agosto dalle colonne di Avvenire aveva lanciato il suo grido di aiuto per fuggire da Kabul, quando ormai il vessillo bianco con la scritta nera del nuovo Emirato degli studenti coranici sventolava sulla capitale afghana, dopo che lo scorso agosto era scattato il D-day del repentino ritiro delle truppe statunitensi dal Paese. Nel giro di poche ore il suo accorato appello veniva mandato in onda con un servizio del Tg3 e subito raccolto da Articolo21, dalla Federazione nazionale della stampa e dalla Federazione europea dei giornalisti, mobilitatesi per lui e per altri due mila reporter che si erano esposti con il loro lavoro, inviando la sua documentazione ai ministeri competenti.

Hedaya (lo chiamiamo affettuosamente così dopo quattro mesi di contatti quotidiani) temeva fortemente per la sua vita e quella dei suoi familiari, visto che nel suo ricco curriculum fra le svariate attività svolte sia come insegnante di giovani donne di Kabul sia come giornalista che denunciava gli atti terroristici, gli attacchi dei taliban contro i civili, vantava pure il servizio prestato alla Criminal Justice Task Force sostenuta dall’ambasciata britannica. Ma era stato soprattutto il suo lavoro presso l’ufficio governativo dell’Alto Consiglio per la conciliazione e la pace dell’Afghanistan, per il quale curava la redazione di report proprio sul gruppo fondamentalista, ad esporlo a rischi. Erano i giorni concitati dell’evacuazione dei cittadini che si accalcavano all’aeroporto di Kabul e in città erano già partiti i pogrom taliban contro gli ex funzionari governativi. «Ci cercano casa per casa, identificando tutti coloro che hanno lavorato per il governo- ci aveva raccontato ad agosto- ed io sono costretto a nascondermi. Non so cosa ci faranno».

Per due volte i suoi tentativi di lasciare il Paese con la famiglia erano falliti: il primo per la marea umana formatasi allo scalo cittadino, il secondo a seguito del doppio attentato suicida, al quale è miracolosamente sopravvissuto. Da vero giornalista ha registrato quegli attimi di terrore, mostrandoceli in diretta video. Braccato come fosse un delinquente e costretto a cambiare continuamente rifugio, riesce a nascondersi per quasi tre mesi in una soffitta senza finestre, mentre per strada spadroneggiava un checkpoint taliban. Non era il civico 263 di Prinsengracht ad Amsterdam del secolo scorso, ma il 5° piano di un edificio qualunque di Kabul del terzo millennio. Il resto è cronaca delle ultime lunghissime settimane trascorse nascosto in Afghanistan: la snervante monotonia, la difficoltà di provvedere al cibo, alle medicine e a tutto ciò che potesse servire ai suoi bambini, cui per fortuna pensavano altri ragazzi del vicinato. Tanti i momenti di sconforto, la strada per la salvezza sembrava lontana. «Sto crollando, prima mi sentivo un leone ma ora mi sento impotente– riferiva al telefono-. I miei figli non possono neanche andare a scuola e io non ho la forza di fargli da insegnante». Poi la svolta. Hedayatullah esce da quella soffitta, affronta i posti di blocco e porta da solo tutte le donne della sua famiglia al confine col Pakistan.

Altro sbarramento umano, venti ore davanti al filo spinato. Decisiva la disattenzione del miliziano del regime che non presta attenzione al suo passaporto, che la sorella aveva opportunamente mischiato con gli altri. Quindi il passaggio verso la libertà e finalmente a Palermo, a casa dello zio Shapoor. Qui trascorreranno i dieci giorni di quarantena previsti dalle misure anti-Covid. «Siamo davvero felici, dopo mesi di minacce di essere arrivati in Italia- dice oggi-. Abbiamo affrontato mille problemi e non ci siamo mai sentiti al sicuro in questi mesi, ma ora siamo qui sani e salvi nella nostra nuova dimora. Desidero ringraziare tutti gli italiani, popolo gentile e accogliente e tutti coloro che ci hanno aiutato. Persone che non hanno mai dimenticato il mio popolo, che continua a soffrire sotto la pressione talebana». Ad attendere Hedaya e i suoi familiari all’aeroporto Falcone Borsellino, lo zio Shapoor Safari, i colleghi del ristorante “Moltivolti” dove lavora ormai da anni come cuoco, il sindaco della città Leoluca Orlando, cronisti e tutti coloro che in questi lunghi mesi si sono prodigati per salvarli dall’inferno in cui è piombato l’Afghanistan, dopo l’occupazione dei taleban. Grazie alla generosità di tanti cittadini che hanno partecipato ad una campagna di raccolta fondi, lanciata qualche settimana fa da “Moltivolti”, gli oltre 10mila euro raggiunti, sono serviti per affrontare le spese del viaggio dalla capitale pakistana, dove erano rimasti per più di due settimane in attesa del visto per Roma. «Da oggi altri dieci afghani saranno dieci palermitani perché questa città li accoglie– ha dichiarato il sindaco Leoluca Orlando, che nei giorni scorsi si è speso con l’ambasciatore italiano in Pakistan per aiutare la famiglia a varcare il confine afghano e ricevere la documentazione necessaria per il viaggio.- . Questa sera Palermo è come una nave nel Mediterraneo, questa è una famiglia di naufraghi arrivati dal cielo, in aereo, e Palermo è pronta ad accoglierli».


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