Bielorussia. La vendetta del padre-padrone è stata brutale

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Il regime dittatoriale bielorusso ha sempre disprezzato le donne. “Essere Presidente di questo Paese è una responsabilità troppo grossa per una donna, non la reggerà, crollerà”, ha detto Aliaksandr Lukashenka quando Sviatlana Tsikhanouskaya si era candidata alle elezioni presidenziali del 2020. Non la prendeva sul serio, era ovvio. Di conseguenza la sottovalutata, come ha sottovalutato la “sua” Bielorussia che ha osato a ribellarsi dopo lunghi 26 anni di “matrimonio” fatto di abusi e violenze, e ha voluto “divorziare”, ovvero pretendere le elezioni libere e trasparenti.

La vendetta del padre-padrone è stata brutale.

Quando in agosto 2020 le prime vittime delle violenze sono uscite dalle carceri e abbiamo visto le immagini degli spaventosi lividi neri che coprivano tutta la superficie del corpo, quando hanno raccontato delle terribili torture subite, le donne bielorusse sono scese in piazza a protestare contro tale brutalità. L’hanno fatto perché in un paese patriarcale come la Bielorussia la donna viene trattata come un essere fragile, debole, inferiore. Questo luogo comune, si pensava, doveva proteggerle dall’essere picchiate con i manganelli fino a perdere i sensi, accatastate a strati nei cellulari della polizia come la legna, fatte stare in ginocchio con le mani in alto con la faccia rivolta al muro — ovvero tutto ciò che i loro uomini avevano subìto.

All’inizio ha funzionato. Gli agenti non sapevano come fermare il fiume delle donne bellissime, di tutte le età, “armate” di fiori e vestite da festa, con l’abbondanza dei colori bianco e rosso che richiamano la storica bandiera bielorussa diventata il simbolo della protesta. Le prime manifestazioni femminili erano un successo. Poi le forze dell’ordine hanno superato l’atavismo e hanno cominciato a usare la violenza anche nei confronti delle donne.

La cosa peggiore però era, e lo è tuttora, il carcere.

L’assenza di beni di prima necessità, come gli spazzolini da denti, gli assorbenti e i medicinali sono all’ordine del giorno. A chi è rinchiuso nella struttura soprannominata “il carcere degli orrori” in via Okrestin a Minsk i pacchi dei familiari non vengono recapitati. Di conseguenza è la prassi che in una cella con 12 persone ci sono 4 spazzolini da denti che si passano da generazione in generazione. I letti sono senza materassi, ma la rete è in realtà una grata di ferro a maglie larghe, quindi è impossibile riposarvisi sopra senza il materasso. La luce elettrica è accesa 24/7, i detenuti vengono privati dell’ora dell’aria nel cortile e la possibilità di farsi la doccia viene loro negata. In estate si muore dal caldo perché le finestre non si aprono, in inverno si gela perché non si chiudono. Ogni notte i detenuti vengono svegliati due volte, alle 2.00 e alle 4.00, per il cosiddetto appello, ma in realtà si tratta di una forma di privazione del sonno. Spesso le autorità mettono nella stessa cella con i prigionieri politici dei senzatetto e dei tossicodipendenti nelle condizioni in cui vengono prelevati per strada. La scarsa igiene, i pidocchi e le crisi di astinenza dei compagni di cella disagiati sono un’altra forma di pressione psicologica.

La repressione delle donne in Bielorussia è fatta di migliaia di storie vere. Si tratta delle donne che si sono esposte pubblicamente, che hanno partecipato alle proteste o fatto volontariato nelle iniziative della società civile. Moltissime hanno scontato la pena di reclusione di 10, 15, 30 giorni, molte di loro hanno collezionato più di una condanna per aver espresso il proprio dissenso non solo partecipando alle manifestazioni, ma anche con un semplice adesivo, un braccialetto bianco e rosso, una foto su Instagram con la bandiera o marshmallow bianco e rosso che richiama sempre il colore della bandiera nazionale, ufficiale nel breve periodo 1991-1995 e ora proibita dal regime dittatoriale.

Volha Harbunova è un’attivista del movimento contro la violenza domestica e l’ex direttrice del centro “Radzislava” per le donne che hanno subìto la violenza. L’organizzazione che gestiva è stata chiusa dalle autorità del regime dittatoriale insieme ad altri 270 ong. Volha ha trascorso in carcere degli orrori in via Okrestin a Minsk 10 giorni prima di essere trasferita in un’altra struttura. Dal giorno dell’arresto avvenuto 9 novembre 2021 ha mantenuto lo sciopero della fame per quasi due settimane per protestare contro le condizioni disumane di cui sopra. Come risultato è riuscita ad ottenere il materasso e la possibilità di dormire la notte, ha ricevuto i medicinali e un pacco con i beni di prima necessità. Nei suoi confronti è stato aperto un procedimento penale per il presunto coordinamento delle proteste femminili nel 2020. Volha rischia fino a 4 anni di reclusione.

Marfa Rabkova ha 26 anni ed è volontaria dell’ong per i diritti umani Viasna. In agosto 2020 Marfa raccoglieva i dati sulle torture delle persone arrestate durante le proteste dal 9 agosto in poi. Il 17 settembre 2020 è stata arrestata e si trova in carcere in attesa del processo. Rischia fino a 12 anni di reclusione. Mentre Marfa era già in carcere, suo padre — una figura molto importante per la giovane — si è ammalato ed è morto senza rivedere più la figlia.

Volha Zalatar, classe 1983, è madre di cinque figli minorenni. Era stata osservatrice durante le elezioni fraudolenti del 9 agosto 2020, volontaria e attivista del quartiere in cui abitava. Si trova in carcere dal 18 marzo 2021 e rischia fino a 7 anni di reclusione con l’accusa di aver gestito un gruppo di Resistenza pacifica. È stata arrestata mentre stava accompagnando la figlia di 10 anni ad una lezione di musica. Gli agenti l’hanno picchiata e torturata: il suo avvocato sostiene che le autorità hanno continuato a rimandare la perizia medica richiesta dalla difesa fino a quando i segni delle violenze non erano scomparse.

La 44enne infermiera Alena Maushuk è stata arrestata dopo le proteste scoppiate nella città di Pinsk in seguito alle elezioni. Un’ex compagna di cella riferisce che Alena è arrivata nella cella nuda, scalza e piena di lividi. Madre di 3 figlie di cui 2 minorenni, Alena ha visto le sue bambine essere date in affidamento mentre lei si trovava in carcere. È stata condannata a 6 anni di reclusione per la partecipazione alle proteste.

Attualmente dietro le sbarre si trovano 984 prigionieri politici, di cui 98 donne e 7 minori. Il numero è destinato a crescere perché i procedimenti penali politicamente motivati sono almeno 4600, mentre le risorse dei difensori dei diritti umani sono limitate.


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