Pensieri afgani. La lunga notte è appena cominciata

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Afghanistan praticamente già archiviato. E’ ormai materia di cancellerie per affari e spartizioni di quote di mercato e potere. La coraggiosa lotta di giovani donne a Kabul, Herat e altrove, quasi un inciso.

Accadrà quello che altre volte è accaduto. Dei Montagnard, la rocciosa popolazione di fede cristiana perseguitata in Vietnam, si apprende solo da meritorie corrispondenze di “Avvenire”. Completamente ignorati i tibetani che un tempo si immolavano col fuoco, disperati perché nessuno, a parte rari campioni dei diritti umani come Richard Gere o Marco Pannella, ne raccoglieva il grido di dolore. Ma si possono citare anche le fiere guerrigliere curde: per settimane idolatrate da settimanali patinate. Hanno lottato contro i fanatici dell’ISIS, lottano ancora. Ma dove, come, chi? Sono state comunque tradite due volte, quelle ragazze e quel popolo: prima usati, poi dimenticati.

Accadrà anche per gli afgani, i tanti abbandonati alle grinfie dei Taliban, il cui pregio (si fa per dire), è di fare quello che dicono, anche se non dicono quello che fanno. Dunque, la sharia, il burqa, l’obbligo della barba, niente musica, delitti e violenze contro gli oppositori…

Le scene dove le madri afgane affidano i loro bambini a sconosciuti militari occidentali pur di salvarli: sono le stesse negli anni ’40 del secolo scorso, quando altre madri disperate affidavano i loro piccoli a sconosciuti, prima di essere avviate nei campi di sterminio nazisti, sperando così di salvarli.

Nella provincia di Herat, dove ha operato il contingente italiano, c’è un edificio blu, una sorta di cubo. E’ una scuola intitolata a Maria Grazia Cutuli, l’inviata del Corriere della Sera uccisa in un’imboscata il 19 novembre 2021 assieme a Julio Fuentes di El Mundo, Azizullah Haidari e Harry Burton di Reuters. In quella scuola studiavano un migliaio di ragazzi, maschi e femmine insieme. Fino a poco tempo fa. Di quella scuola resteranno fotografie ingiallite.

Già sbiadito il ricordo di personaggi come Danish Siddiqui, fotoreporter, 41 anni, responsabile dell’ufficio indiano dell’agenzia di informazione Reuters, vincitore di numerosi premi internazionali fra cui il Pulitzer: ucciso nel luglio scorso, mentre copre l’avanzata talebana nel Sud del Paese insieme alle truppe di Kabul. Siddiqui segue su mezzi blindati uno commando delle Forze speciali afgane dirette lungo il confine meridionale con il Pakistan. Intervista un commerciante del luogo durante una tregua degli scontri; la sparatoria improvvisa riprende, una tempesta di fuoco, sul campo giacciono Siddiqui e un ufficiale afgano. Il giornalista era noto per i suoi impressionanti reportage da luoghi rischiosi. “Scatto per la gente comune che vuole vedere e sentire una storia da un luogo in cui non può essere presente”, disse tre anni fa, quando vinse in team con un altro reporter “Reuters” il Pulitzer per aver documentato il dramma dei musulmani Rohingya in Myanmar. Racconta un collega, Rahul Bhatia: “Le notizie non erano solo notizie per lui. Vedeva le persone dietro e voleva farle sentire”.

Più d’uno osserva che i nuovi Taliban padroneggiano e non demonizzano strumenti sofisticati di comunicazione. Ma già al-Qaeda e l’Isis facevano convivere islam retrogrado e oscurantista con modernissima tecnologia. Imparano alla svelta. Quello che continua a stupire è che gli USA e gli occidentali non sappiano fare buon uso di strumenti che pure hanno inventato.

C’è chi si domanda perché la comunità islamica internazionale non batte ciglio di fronte alla tragedia afgana. Giusta domanda. Ma potrebbero molti islamici non fanatici e terroristi chiederlo a noi: perché nessuna lacrima, nessuna commozione da parte nostra, quando i terroristi islamici colpivano i loro stessi correligionari? E accaduto in molte riunioni di redazione a cui ho partecipato: se l’attentato aveva come vittime degli occidentali una quantità di articoli, come è giusto. Al contrario se le vittime sono islamici, anche se decine e decine, quando va bene, una notizia-trafiletto. Miope comportamento: sarebbe saggio chiedere solidarietà, ma al tempo stesso dimostrarla. Un islamico non fanatico più facilmente potrebbe essere a noi vicino, se anche noi fossimo partecipi del suo dolore quando viene colpito. Si può cominciare da qui. E, prima di finire, che non solo nell’Afghanistan dei Taliban accadono cose orribili, ma anche in Arabia Saudita dove qualcuno vede un rinascimento arabo…

Presto dimenticheremo: smetteremo di provare sentimenti di rabbia o indignazione, cederemo all’indifferenza e alla rassegnazione: non sappiamo far tesoro del monito contenuto nel sempre attuale sermone del pastore Martin Niemoller: “Quando vennero per gli ebrei e i neri, distolsi gli occhi. Quando vennero per gli scrittori e i pensatori e i radicali e i dimostranti, distolsi gli occhi. Quando vennero per gli omosessuali, per le minoranze, gli utopisti, i ballerini, distolsi gli occhi. E poi quando vennero per me mi voltai e mi guardai intorno, non era rimasto più nessuno…”.

Un disastro a conti fatti, l’epilogo della missione “Enduring Freedom”, e non solo per l’Afghanistan di nuovo martoriato da un feroce integralismo islamico. Quasi certamente si ricreeranno le condizioni per lo sviluppo sull’intero territorio di attività illecite: traffici clandestini, migrazioni forzate, santuari per il terrorismo internazionale.

…«Mi gridano da Seir: “Sentinella, quanto manca al giorno? Sentinella, quanto resta della notte?”. Risponde la sentinella: il mattino viene, ma è ancora notte! Se volete domandate, chiedete, tornate e domandate ancora»…

La lunga notte è appena cominciata.

 


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