Fabiana, giornalista d’inchiesta: storia di ordinaria precarietà

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L’appuntamento di questo mese della rubrica “Dalla parte di Lei” abbiamo scelto di dedicarlo a una giornalista di oggi, Fabiana Pacella. L’ha intervistata Monica Andolfatto. E’ un racconto di talento, fatica, determinazione e di difficoltà incontrate ieri come oggi nel portare avanti un’informazione libera e un giornalismo che si richiama all’Articolo 21 della Costituzione e che nel contempo rispetta, anzi esalta, la dignità del lavoro che è un diritto ma anche un dovere.

Come sancito all’articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Una storia che è un esempio: accomuna moltissime donne e anche uomini che fanno i giornalisti in questo tempo complesso e difficile, spesso senza le necessarie tutele. Una storia che ci dice che la libertà di stampa, l’informazione accurata e libera, per essere davvero tale, necessita anche di una legge sull’equo compenso per i giornalisti autonomi, legge che da anni giace in Parlamento così come un provvedimento legislativo contro le querele bavaglio e le minacce.

A questo proposito il Presidente della Repubblica anche recentemente ha espresso preoccupazione e la necessità di interventi adeguati: ascoltare la sua voce autorevole è un imperativo categorico.
Far conoscere la storia di Fabiana Pacella è un contributo per continuare a rivendicare diritti e tutele contro lo sfruttamento del lavoro di giornalisti come lei.

 

Il sorriso. Dolce. Rassegnato. Ma anche determinato. E che le illumina il viso quando le chiedo: «Hai mai pensato di cambiare lavoro?».  Sì che l’ha pensato e più volte e ci ha pure provato. Quasi un anno. In una cantina, addetta alla comunicazione e al marketing: «Mi sono trovata benissimo – mi dice –  un impiego con un orario, uno stipendio a fine mese, riposi, ferie. Ma alla fine, mi trovavo a fare la giornalista, una volta uscita dall’ufficio, di sera e nei fine settimana. Perché io questo voglio fare».

A cottimo, con dei compensi che vanno da 4,71 euro netti a pezzo per il quotidiano, a 15 euro lordi a notizia per l’agenzia: «Se questo deve essere il prezzo della libertà, se così posso scrivere quello che vedo e quello che scopro senza dover rendere conto a editori o capi che hanno le mani in pasta con il potente di turno o che devono rispondere a interessi altri, allora arrotondo e mi mantengo con altro: uffici stampa, presentazione di serate, ricerche».

Fabiana Pacella tra pochi giorni festeggerà il compleanno: 44 anni. E una vita da precaria giornalista. Eppure è una cronista in gamba, di nera e di giudiziaria, in un ambiente che non è per nulla facile, specie per i “ficcanaso” come vengono percepiti i giornalisti che non si accontentano delle “versioni ufficiali” e cercano di andare oltre la superficie spesso preconfezionata  a uso e consumo del mainstream.  Una giornalista d’inchiesta.

«Credevo di essere io quella sbagliata, di essere una idiota, una stupida. E – mi confessa – ce n’è voluto di tempo affinché comprendessi che sbagliato era il sistema, una consapevolezza cui sono arrivata in seguito e non senza sofferenza». Già perché a noi donne manca la sicurezza e la sicumera dei maschi, che di rado si mettono in discussione, che di rado si giudicano inadeguati.

Abita a Salice Salentino nel leccese ai confini con le province di Taranto e Brindisi: un comune di quasi novemila abitanti, che dà il nome al rinomato vino doc,  con un’economia per lo più basata sull’agricoltura, con stabilimenti vinicoli e oleari di trasformazione del prodotto.

Pacella, figlia unica, vive con i genitori: «Con le entrate che vanno e vengono non sarei in grado di vivere da sola. Pago il mutuo da 20 anni per provare a me stessa che compartecipo al bilancio familiare. Sia chiaro con i miei sto benissimo, ma pure loro sanno che mi piacerebbe autonomia e indipendenza abitativa. Mio papà ha 72 anni e alla mattina alle 4 va a lavorare in pescheria. Anche lui purtroppo ha subito le conseguenze dei miei articoli con il furto di tutto il pesce che altro non era che un avvertimento a me. Ma mi ha sempre rincuorato e supportato. Lo stesso mamma».

Una giornalista d’inchiesta, abbiamo detto, che proprio in questi anni difficili ha ricevuto importanti riconoscimenti, uno tra tutti il premio Daphne Caruana Galizia 2020 (consegnato, nelle altre edizioni, a Federica Angeli, Sandro Ruotolo, Paolo Berizzi). Una che non molla.

Tanto che quando il giornale per il quale lavorava da collaboratrice e con contratti di sostituzione, le ha fatto intendere che alcuni suoi pezzi su quella determinata inchiesta non erano rilevanti, lei ha cercato e trovato da pubblicarli su altre testate senza mai arrendersi.

Un’inchiesta a pezzi, dunque, apparsa dove le hanno dato spazio di volta in volta, fino all’arrivo della querela di turno: Quotidiano di Lecce, Gazzetta del Mezzogiorno, Corriere della Sera con Reportime sul corriere.it di Milena Gabanelli, Il Sole 24 ore, Libera informazione, Formiche, Il tacco d’Italia, Articolo21.

Quale inchiesta? Comincia tutto nel giugno 2014 con l’arrivo dei carabinieri e dei finanzieri in una banca di credito cooperativo di Carmiano (Le), dove il presidente è il fratello del sindaco e gli avvisi di garanzia riguardano diversi notabili. All’inizio era solo un pezzo di provincia, come tanti, alimentato dal comunicato di Procura e forze dell’ordine.

«E si scopre – racconta Pacella – un fitto intreccio tra politica, imprenditoria, sacra corona unita, massoneria, finanza all’interno del quale la banca svolge il ruolo di collettore di voti, “vuoi il mutuo mi devi portare voti”. Con l’aiuto del mio avvocato, esperto di crediti bancari, inizio a spulciare le carte ed ecco aprirsi una realtà incredibile: dai filmati porno, ai provini per il Grande fratello e con personaggi, politici e non, di alto lignaggio fuori dalla mia portata».

E Pacella scrive. E spuntano le intimidazioni: prima velate, poi aperte. Il sospetto che qualcuno abbia messo una cimice nell’auto. Le minacce rivolte al padre, che ha rischiato di non poter più portare avanti la sua attività commerciale peraltro storica, il furto ai danni di uno dei suoi testimoni nel processo scaturito da una querela temeraria a suo carico.

Lo sberleffo, il dileggio in pubblico di un imputato al processo che sarcastico le grida: «Ho saputo che hai perso il lavoro, che hanno rubato a papà».

Intanto il Comune viene commissariato. Pacella non trova un impiego che sia uno: cerca, cerca, invano. E fioccano le querele: otto, per lo più in sede penale, un rinvio a giudizio senza nemmeno avere diritto all’udienza-filtro, quella preliminare, da cui si aprono due processi a suo carico a Roma e Milano, oltre alle querele in sede civile con richieste di risarcimento che farebbero tremare le gambe a chiunque, figuriamoci a una precaria che non ha alle spalle un editore che le garantisca la tutela legale.

Si tratta di vere e proprie minacce scelte da chi, invece di sparare, bruciare l’auto, o recapitare pallottole, non si sporca le mani e ti cita in tribunale: noi giornalisti le chiamiamo querele bavaglio, querele temerarie. Un modo subdolo e socialmente accettato – perciò ancor più pericoloso per la libertà di stampa – che ha il solo scopo di zittire il cronista, nel nostro caso la cronista.

«Faticavo a dormire la notte, e se mi appisolavo poi mi svegliavo di colpo col fiato corto. Mi sentivo uno schifo, perduta, tradita. Non mi fidavo più di nessuno, ero diffidente fino all’esasperazione. Mi sono venuti in soccorso dei cari amici avvocati che mi hanno difesa senza chiedere compensi e che non finirò mai di ringraziare. Ero isolata e anche denigrata. Anche da alcuni colleghi e colleghe, il pericolosissimo “fuoco amico”. C’era persino chi, se mi incontrava per strada, non mi salutava, faceva finta di non vedermi. Per fortuna – continua Pacella con la voce che tradisce un dolore presente – c’è facebook. Sui social mi sono raccontata, ho descritto la mia di verità, ciò che mi stava succedendo, ricevendo solidarietà e vicinanza. E rispetto ancor prima che come giornalista, come persona… pensavo di essere deficiente, di essermi ammattita … ma i lettori, la gente, mi hanno rinnovato la loro fiducia ed è stato fondamentale».

Il nodo alla gola lo camuffa con un colpo di tosse, con un maldestro tentativo di schiarirsi la voce. Riprende: «Sai una cosa? Mi succede spesso. Sono a terra ed ecco un gancio che mi tira su, un nuovo lavoro, una persona cara, il cielo guarda e mi protegge, lo so. Ho incontrato grazie a questa vicenda  persone splendide, Beppe (ndr Giulietti, presidente della Fnsi) con la scorta mediatica e Paolo (ndr. Borrometi, presidente di Articolo 21, giornalista sotto scorta, nel mirino della mafia) che mi ha permesso di lavorare con lui. E non sono più sola. Il sindacato mi ha fornito un’ancora, a partire dall’Assostampa pugliese e dalla Federazione nazionale della stampa. Come fai a dimenticare queste cose?».

Come vedi il futuro? «Non faccio più progetti da tanto tempo, mi sono giocata le assunzioni per rimanere una voce libera, ho sbagliato anche gli investimenti privati – ammette con una serenità disarmante –  e ora vivo alla giornata: esiste oggi, al massimo domani. Ma non mi sento più una sciocca, sono una discreta giornalista, so di essere dalla parte giusta, so di essere minoranza e ne vado fiera, continuo a battermi. Il successo? È quello che ho: una famiglia sana che ha saputo superare momenti difficili e riemergere e mi ha insegnato la lotta e la difesa della dignità, della libertà, dell’onore, gli amici che sono da sempre gli stessi, i miei luoghi del cuore, le mie abitudini da Fabiana e non da Pacella, quella che oggi sale sui palchi a parlare o ritirare premi. Queste sono le mie certezze, che mi hanno salvato».

Il giornalismo? «Un mestiere che svolgo da più di vent’anni. Un mestiere in cui mi realizzo, di grande valore sociale ed etico. Un mestiere che spero possa darmi anche la dignità di un compenso adeguato, giusto, equo in maniera da attuare il dettato costituzionale dell’art. 4 che sancisce il diritto al lavoro e il dovere di svolgerlo secondo le proprie possibilità e la propria scelta».

 

NOTA A MARGINE

Querele bavaglio ed equo compenso sono due dei fronti rispetto ai quali il sindacato unico e unitario dei giornalisti, la Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana) si sta battendo da tanti anni, nella convinzione che non vi può essere libertà di stampa se i giornalisti sono:

  • sotto scacco di richieste di risarcimento da centinaia di migliaia se non di milioni di euro;
  • sotto scacco del ricatto occupazionale, sfruttati e sottopagati, a cottimo, riders dell’informazione.

Querele bavaglio: sono diventate una vera emergenza democratica; in Senato giace una proposta di legge, un unico articolo, manca la volontà politica per approvarla.

Legge sull’equo compenso 233/ 2012: non è mai stata attuata; fissa una soglia minima in un mercato del lavoro che vede articoli pagati cinque, sette o addirittura un euro.

 

 


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