Teatro dell’esilio. Il piacere del radiodramma “Serata speciale”

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Di Yannis Kott. Interpretato e diretto da Mario Mattia Giorgetti

Torna il piacere del radiodramma, del teatro radiofonico? Sembra di si, e va salutato con “cultural letizia” e senza alcun sentimento di “ripiego”, di contingente reazione alle perduranti ristrettezze logistiche (e impresari ali) date da una pandemia tutt’ora insidiosa e non domata. Ed è quindi il caso di far canno alle nobili ascendenze di questo genere teatrale che ebbe i suoi anni più fulgidi fra il 1925 e il 1950, afferma dosi dapprima in Inghilterra, poi negli Usa- coinvolgendo gradatamente autori di prima grandezza come Stoppard, Pinter, Arden, Wesker. A loro volta precedute dal radiodramma più famoso di tutta la storia del teatro, che resta, da parte di Orson Welles (1938), l’immane fake news dello sbarco di bellicosi alieni sul pianeta terra. E conseguenti scenari di fuga e panico collettivo

Più lineare, ponderato, elaborato nel linguaggio (liddove la ‘voce umana’ deve ricreare atmosfere, immaginazioni ambientali, sospensioni, sussurri vocali ed ‘espressioni’ dell’inconscio), resta invece il teatro radiofonico italiano, che vede i suoi progenitori in Vasco Pratolimi, Diego Fannri, Flaminio Bollini e Anton Giulio Majano. Ma –su progetti inerenti i repertori della classicità ellenica- anche il prismatico magistero di Luca Ronaconi. Che, sul finire degli anni novanta, tentò di farne un’emissione specializzata dagli studi Rai di Roma e Torino, arenatasi purtroppo ancor prima di avere inizio.

Dal canto suo, “Serata speciale” di Yannis Kott, registrata presso gli studi della Fondazione Terron (a Milano) e reperibile agevolmente sui canali di you tube, è trasposizione attualizzata del cechoviano “Canto del cigno”, scritto nel 1887 ad appena 26 anni, per la “forte seduzione” emanata dello scrittore dai “piaceri di thanatos”

Si suppone che l’espressione derivi dall’antica credenza

che riprende, per definizione, una allegoria di “dolce morte” tramandata da Platone e ripresa con entusiasmo in età romantica dal teatro di danza

Protagonisti di questo piccolo capolavoro di poche pagine sono Vasilij Vasil’ič Svetlovidov, un vecchio attore con un’importante carriera alle spalle, e Nikita Ivanyč, il suo anziano suggeritore (comunque assente nella versione di Kott)

Svetlovidov, una notte (dopo lo spettacolo con cui, ormai in età avanzata, ha deciso di concludere la sua carriera) si addormenta, dopo una sbornia, in camerino e, dimenticato da tutti, si risveglia spaventato e ignorato da tutti. Le porte sono sbarrate dall’esterno, così Svetlovidov, vagando smarrito in cerca di aiuto, scopre che il suo (inesistente) suggeritore abita emarginato in uno dei sottopalchi del teatro. Particolare, come accennavamo. del tutto assente nell’edizione radiofonica della Fondazione Terron. Concentratasi invece su un “lungo addio” al palcoscenico”, da un amaro bilancio di glorie trascorse e presenti sventure, rimembranti e rievocarti una feconda carriera cui si deve pur congedarsi- nella totale precarietà, insicurezza di “dove” si andrà domani

(“ma la casa di riposo per artisti decrepiti..no, proprio no!”).

Svetlovidov – scrive Cechov- è ormai ottuagenario, malato e “…con l’anima fredda e buia come una cantina”. L’attore recita infine i suoi “cavalli di battaglia” trasformandosi in Boris Godunov, Otello, Re Lear, Amleto… In una struggente e appassionata interpretazione che dovrà essere, appunto. il suo doloroso “canto del cigno”.

Il personaggio di Svetlovidov, interpretato per la prima volta nel 1988 da Vladimir N. Dadydov (al Teatro Kors di Mosca) è considerato unanimemente una “prova d’attore” per anziano “mattatore”. Senza toni roboanti, anzi umanamente ‘dimessi’ Celebri le storiche interpretazioni di John Gielgud (nell’omonimo film di Kenneth Branagh) e, in Italia, quelle di Memo Benassi, Glauco Mauri, Mario Scaccia.

Cui Mario Mattia Giorgetti apporta il suo tassello di esperienza, sensibilità artistico -esistenziale, il suo inconfondibile timbro di voce profondissima- che passa dalla più elevata “tradizione” ad un presente di disappunti e disinganni (pubblico che diserta i camerini per congratularsi, critici distratti, iniquo trattamento di degli editori di giornali), stemperando con malizia gli strali della nostalgia a quelli di una rinnovata fierezza nell’attimo più buio di un’esistenza fertile e operosa. Mi viene in mente una massima di Renzo Giovampietro e Giorgio Prosperi, che forse Giorgetti ricorderà_ “amici, credete, il teatro deve essere rauco”. Altrimenti è birigno.

Esisteranno posteri capaci di tenerne conto?


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