Sport e razzismo: no all’indifferenza, la Nba cambia la storia dello sport 

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Sta succedendo qualcosa di grosso nello sport mondiale: niente più silenzio o indifferenza di fronte al razzismo. The time they are a changing: la ballata di Bob Dylan è del 1963. Cinque anni dopo i pugni chiusi e guantati di Smith e Carlos sul podio di Città del Messico. E poco altro. Ci sono voluti quasi sessant’anni per far capire anche ai campioni e a tutto l’establishment dello sport che i tempi stanno cambiando e non ci si può più nascondere dietro la foglia secca dell’isolamento. E nessuno si senta esentato quando c’è da reagire al razzismo, nessuno si senta assolto. La NBA di basket si ferma, sulla spinta dei Milwaukee Buks  che hanno creato un effetto domino sulle altre squadre,  per chiedere giustizia dopo l’ennesimo caso di violenza contro un afroamericano e per protestare contro il razzismo. Anche il baseball e il calcio americani non hanno giocato nei giorni scorsi dopo il caso di Jacob Blake, l’uomo di 29 anni colpito alle spalle per sette volte dalla pistola di un poliziotto, sotto gli occhi dei suoi tre figlioletti a Kenosha, in Wisconsin. Resterà paralizzato per sempre. L’episodio, l’ennesimo di violenza della polizia contro un afroamericano, ha fatto riesplodere le proteste a pochi mesi dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, soffocato dal ginocchio sul collo di un poliziotto durante un controllo. Entrambi questi fatti, così come altri, sono documentati da video che fanno il giro della rete. In queste ore le proteste stanno montando e il fanatismo di qualche giuggiolone fascista soffia sul fioco: un diciassettenne fanatico di armi ha ucciso due manifestanti a fucilate nella stessa Kenosha.

Nello sport internazionale si era capito tre anni fa che i tempi stavano cambiando, quando Colin Kaepernick, giocatore di football dei San Francisco 49ers, ha deciso di inginocchiarsi durante l’inno nazionale per protestare contro la violenza della polizia sui neri: è stato cacciato dal campionato Nfl, ma è diventato un simbolo. Il suo esempio è stato seguito dalla capitana della nazionale femminile di calcio Megan Rapinoe, prima calciatrice e prima bianca a schierarsi.

All’inizio di luglio il campione del mondo Lewis Hamilton, prima del Gp d’Austria ha chiarito al mondo che “la vita dei neri conta” e si è inginocchiato insieme ad altri quattordici piloti che indossavano la maglietta nera e la scritta «Fine al razzismo».

David Alaba, 28 anni, difensore del Bayern Monaco, austriaco con madre filippina e padre nigeriano, ha chiuso la finale della Champions, vinta sul PSG, inginocchiandosi con il suo doppio messaggio: “La mia forza sta in Gesù” e “Black lives matter”. Con Dio e contro il razzismo. Nemmeno il mondo del tennis è rimasto indifferente: Naomi Osaka, tennista giapponese al 10 posto nel ranking mondiale, si è ritirata dal torneo internazionale in corso a Cincinnati e sul suo profilo Facebook ha postato: “Prima di essere un’atleta, sono una donna nera. E come donna nera sento che ci sono questioni ben più importanti e che meritano attenzione, rispetto al guardare me mentre gioco a tennis. Guardare il continuo genocidio di persone nere per colpa della polizia, onestamente mi fa rivoltare lo stomaco. Quando ne avremmo abbastanza?

Anche il golf si unisce alla protesta dello sport americano e scende in campo per schierarsi contro ogni forma di razzismo  attraverso un videomessaggio di Cameron Champ, uno dei primi 100 nel ranking mondiale: “Questa è solo la punta dell’iceberg, la gente ha ignorato il problema per troppo tempo e siamo arrivati a un punto in cui la situazione è diventata intollerabile”.

Lo stop della NBA è clamoroso e cambierà la storia dello sport perchè si tratta di una delle leghe professionistiche più ricche al mondo, con 8 miliardi di fatturato. Ma è anche quella in cui l’85 per cento dei giocatori è di pelle nera. E se un colosso economico di queste dimensioni viene fermato da un gruppo di supercampioni superpagati che prende coscienza e dice “basta”, fanno impallidire alcune sciocche giustificazioni di chi, anche in Italia, continua a dire che lo spettacolo non si può fermare. Un esempio? Nel nostro Paese, negli ultimi 6 anni, ci sono state soltanto 4 sospensioni temporanee di partite di calcio di serie A per episodi di razzismo. Eppure cori d’odio, striscioni offensivi e frasi razziste si rincorrono negli stadi. Nonostante le proteste dell’Aic, l’Assocalciatori presieduta da Damiano Tommasi, siano state sempre puntuali nel denunciare il razzismo, in campo e fuori.

Ma i tempi incominciano a cambiare anche da noi. Quando il campionato è ripreso, dopo 103 giorni di interruzione per il lockdown, il primo gol è stato segnato da Nicolas Nkoulou, difensore camerunense del Torino. Lo ha festeggiato inginocchiandosi sull’erba per esprimere sostegno a Black Lives Matter. Il giorno dopo lo ha fatto il centravanti belga dell’Inter Romelu Lukaku. È il caso di ricordare che a settembre, appena arrivato in Italia dall’Inghilterra, aveva denunciato i cori razzisti ricevuti a Cagliari dai sostenitori avversari, ma era stato redarguito da una parte dei suoi stessi tifosi. Si sono inginocchiati anche i giocatori del Torino; la Sampdoria ha postato la sagoma di un marinaio – il suo simbolo – tutto nero; l’Inter ha giocato in Coppa Italia con un messaggio antirazzista sulla fascia da capitano; Juventus e Milan hanno fatto il riscaldamento con la maglietta di Black Lives Matter. Lo stesso simbolo applicato dai giocatori della Roma sulla loro maglietta.

Victor Osimhen, 22 anni, attaccante nigeriano “acquistato” per 70 milioni dal Napoli, proveniente dal Lille, al suo arrivo in Italia ha detto: “Sì, ero un po’ scettico sull’Italia e sulla situazione del razzismo nel vostro paese. Ma poi ho visitato la città di Napoli, ho parlato con il presidente e l’allenatore, mi sono tranquillizzato”.

Nei campionati italiani ci sono stati 750 episodi di razzismo in 15 anni, fra il 2000 e il 2014, soprattutto nelle giovanili: ce lo ha spiegato il sociologo Mauro Valeri, una vita spesa a denunciare il razzismo nello sport. A lui, scomparso nel novembre scorso, è stato intitolato il primo Osservatorio Nazionale contro le discriminazioni razziali nello sport, presentato a luglio da Unar-Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, dall’Uisp e da Lunaria.

In questo agosto cupo e insolito, lo sport professionistico sembra alzare la testa in tutto il mondo, con una forza inedita, al di là delle scontate prese di posizione del passato, affermazioni di principio spesso tradite. Le istituzioni dello sport, spesso difese da una cortina fumogena fatta di isolamento che loro stesse hanno creato, e quelle politiche non possono ignorare queste novità. Si tratta di un fenomeno importante, da seguire con attenzione perché lo sport è linguaggio popolare. Se prende coscienza che non è un fenomeno separato dalla società e che anche l’uccisione di Jerry Essan Masslo, avvenuta a Villa Literno alla fine di agosto di 31 anni fa, è anche affar suo, significa che i tempi stanno cambiando per davvero: “For the loser now will be later to win Cause the times, they are a-changin’- perché il perdente di oggi sarà il vincente di domani. Perché i tempi stano cambiando”.


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