Elio Pecora: “Nell’aria del mattino”

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«Uscire significa entrare in un mondo stretto,
andare raminghi per strade che non conosci
(pure tutto fu chiaro, ieri, al tramonto
di un giorno avvinto a leggerezze confuse).»

Ho trovato questi versi nell’ultima raccolta di Elio Pecora, e mi sembra di scorgervi una singolare risonanza con l’indecifrabile piaga che siamo costretti ad affrontare. La sua raccolta di versi NELL’ARIA DEL MATTINO (frammenti di un prologo), è uscita per le Edizioni Il Bulino alcune settimane fa; sono diciotto composizioni in tutto, racchiuse in un raffinato volumetto di 33 pagine. Ogni lirica affiancata da un’illustrazione di Giulia Napoleone: dipinti di geometrica linearità in campiture uniformi ma non inerti, anzi superfici mai ferme, vibranti e mosse come il cielo, il sole, l’acqua del mare. Sembrerebbe assente il quarto elemento, la terra. Ci sarà pure una ragione.

Avendo tardato a scriverne a causa di una sequenza combinata di successivi impedimenti, accade che ora il ritardo non appaia più frutto del caso quanto piuttosto obbediente a una sospensione misteriosa coordinata agli eventi in arrivo. Una congiura propizia.

Riprendo in mano il volumetto quando il mondo intorno a noi è nel frattempo mutato: colpito dalla folgore di un sortilegio, ha assunto un aspetto imprevisto. Nulla più è come prima.

Pertanto anche le poesie di Pecora sono cambiate in virtù, si direbbe, di una trasfigurazione. Fenomeno tutt’altro che raro in poesia, la cui anima mutante, nell’attuale congiuntura, sembra addirittura riemergere da profondità delfiche.

Rileggo i versi proposti all’inizio di questo scritto e mi sembra di avere davanti agli occhi Roma, già in stato di grave allarme, quando però il peggio doveva ancora accadere: l’invasione a macchia d’olio del morbo invisibile; forse, chissà, le avanguardie di un esercito in marcia, un’invincibile armata partita da remote costellazioni per conquistare il bel pianeta azzurro, spazzandone via gli abitanti.

Il demoniaco contagio in pochi giorni ha trasformato l’Italia, le nostre abitudini. Insieme al profilo dei borghi e delle città restituite a un aspetto mai prima presagito, è cambiata perfino la nostra percezione dello spazio, e del volgere del tempo, associati a un sentimento di insicurezza, di fragilità, da decenni dimenticato nell’ebbrezza di una vita da bere simile a un aperitivo troppo colorato.

Il virus si è impossessato dei nostri pensieri, delle nostre notti; ha svuotato Roma come se una gigantesca mano l’avesse capovolta, rovesciandone fuori la ressa caotica e chiassosa. Una città fantasma: dove sono finite la suburra stridente di voci, e il tronfio Colosseo che mille e mille folle assediavano a ogni ora?

Via Nazionale (attenti al nome) deserta, da attraversare a piedi in lungo e in largo senza alcun timore: scomparse le auto ringhiose, gli strepitanti sciami di scooter, i pesanti jumbo-bus snodabili che a ogni passaggio scuotono il tufaceo ventre vuoto della Capitale. E lassù, alla sommità dello spettrale corso umbertino riconsegnato per incanto all’originaria eleganza, la fontana delle Naiadi distese languide e nude alla carezza dei getti d’acqua, avvolte in una nuvola di vapore scintillante nel sole. Escluse loro malgrado da ogni sguardo lascivo e ammirato.

Sembra davvero di “andare ramingo per strade che non conosci”, e si prova l’impressione di una levità siderale, di un elastico procedere su scarpe a molla, in un’elettrizzante assenza di gravità, avanzando “avvinto a leggerezze confuse”.

Sarà suggestione, o il poeta aveva inconsapevolmente previsto tutto ciò?

Se proviamo a sussurrare a bassa voce i suoi versi, ogni gesto, ogni pensiero, ci giungeranno imbevuti in una luce insospettata:

«risillabare le giornate, il sole che si spande
il cielo che si slarga, nuvole, storni, il rombo
di un aereo, una voce fioca oltre i muri.
una musica roca, un richiamo…»

Mi rendo conto della forzatura, dell’alterazione di tinte e significati; ma le poesie mi appaiono, con sempre maggior chiarezza, simili ad arcani sottotesti, a grappoli di simboli da cui piluccare a piacimento, ognuno per ciò che avverte o intravede.

Del resto il poetare non è anche profetare? Un misterioso associarsi di parole che compongono messaggi a volte, quasi sempre, ignoti a noi stessi.

«Avanzano lungo i crinali, nell’aria appestata,
i sacerdoti obesi di un dio indifferente;
il loro ufficio è negarsi alla bugia
che assegna la resa, né l’intesa concede.»

Nessuno degli incessanti messaggi video che in questi giorni vorticano a caduta libera sulla rete, riuscirà mai neppure a sfiorare l’eco abbagliante delle strofe che il poeta aveva scritto per sé, di certo all’oscuro dell’infausta calamità, e che pure oggi sembrano ridisegnare il presente con il musicale presentimento di una Pizia.

Sono carmi avvincenti perché parlano di noi da antri misterici, ben intonati alle corde della Musa.

Eppure nulla di tutto ciò aveva in mente Elio Pecora, se il suo componimento di apertura, l’unico scritto in corsivo, annuncia su accordi disarmatamente privati il corteo dei suoi versi lucenti:

«Una stanza, e nella stanza una finestra,
e nella finestra la luce che va crescendo:
l’alba. I mobili e gli oggetti della stanza
prendono forma, colore. L’uomo
che esce dal sonno si muove
lentamente, si cerca i gesti, le parole.
Torna, nasce, rinasce.»

Nel piccolo il grande, nel microcosmo il cosmo. Nella poesia si cerca comunque, e non di rado si trova, sé stessi.


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