Addio Maastricht

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Se l’Europa ha ancora qualche piccola possibilità di salvarsi è perché tutti, compresi i più alti papaveri della sua tecnoburocrazia, di fronte alle bare, alle sirene spiegate delle ambulanze e, soprattutto, ai morti che la popolazione non sopporta più, hanno capito che continuare a puntare sulla cieca austerità non sarebbe più tollerato dall’opinione pubblica. Questione di sopravvivenza e di autoconsrrvazione, non di etica. Non ci illudiamo che certi personaggi abbiano dei sentimenti, che comprendano il valore inarrivabile della persona umana, che diano retta agli appelli di papa Francesco e che siano minimamente interessati al sogno europeista di Spinelli. Sappiamo come ragionano, come sono fatti, come la pensano. Ma sappiamo anche che sono molto attenti all’immagine e al portafoglio, e stavolta hanno compreso per tempo che il martirio inflitto alla Grecia all’inizio dello scorso decennio non sarebbe stato possibile. Pertanto, hanno deciso di mettere mano ai dogmi e ai tabù con i quali ci hanno avvelenato negli ultimi trent’anni, facendo crollare l’economia del Vecchio Continente, facendo impennare il debito pubblico dell’Eurozona di trenta punti percentuali e trasformando persino un’opinione pubblica dichiaratamente europeista come quella italiana in un incubatore di rabbia e risentimento che ha gonfiato le vele di tutti i sovranisti, i populisti e i nazionalisti.
Addio Maastricht, senza rimpianti. Il tetto del 3 per cento nel rapporto fra deficit e PIL è andato a farsi benedire dopo che per anni ci era stato presentato come un principio cardine dell’Europa, un vincolo di fedeltà sacro e inviolabile, in barba a Keynes, al piano Beveridge, all’evidenza e al buonsenso.
Addio agli sceriffi del pareggio di bilancio in Costituzione, ai restauratori dell’ordine costituito ottocentesco, ai vessatori di ogni ordine e grado, ai saccenti e agli attempati professori universitari, evidentemente mai andati al di là del perimetro della propria cattedra, che hanno disseminato l’intera Europa di malcontento e sentimenti d’odio di cui tutti i governi democratici e progressisti hanno fatto, chi più, chi meno, le spese.
La nuova Europa che nascerà sarà figlia di una tragedia, paragonabile, per proporzioni, ai diluvi della storia che hanno insanguinato il Novecento. Non a caso, il Pontefice ha avvertito il bisogno di dire la sua su ben due quotidiani in una settimana: per far sentire la propria voce e per inviare un messaggio di fiducia e di speranza a un Paese martoriato.
Non a caso, anche i liberisti più incalliti cominciano a prendere atto di quanto sia fallimentare e fallito il modello di sviluppo che hanno difeso a spada tratta per tre decenni.
Non a caso, anche gli epigoni di Fukuyama, quelli della “fine della storia” e del sereno vento dell’Ovest che sarebbe spirato sul mondo, arrecandoci ogni genere di benessere senza dover compiere alcuno sforzo, ormai fanno il possibile e l’impossibile per nascondere l’oceano di fesserie che ci hanno ammannito a partire dai ruggenti anni Novanta.
Una stagione si è definitivamente conclusa, con i suoi vincoli esterni, i suoi condizionamenti simili a una garrota e le sue imposizioni che hanno trasformato il progetto dei padri del dopoguerra in una gabbia insostenibile, dalla quale sempre più cittadini sognano di evadere.
L’Europa che, forse, rinascerà lo farà su basi nuove, cominciando finalmente a preoccuparsi non solo di denunciare quanto siano brutti e cattivi i seguaci di Steve Bannon ma di prosciugare il terreno di coltura in cui prosperano indisturbati. Lo stesso avvenne dopo aver sconfitto il nazifascismo, con Bretton Woods e l’Europa socialdemocratica, culla del welfare state e dei diritti individuali e collettivi nonché di splendide costituzioni antifasciste e improntate al socialismo liberale.
Son servite le bare e il superamento del livello di guardia perché ciò accadesse ma è accaduto. Un cambiamento d’epoca che modificherà per sempre il nostro modo di essere e di pensare, consentendoci di comprendere fino in fondo la nostra intrinseca fragilità e, speriamo, di rinascere migliori di come eravamo.

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