Una morte imbranata sul palcoscenico del Franco Parenti di Milano

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Al Teatro Franco Parenti va in scena un surreale omaggio a Wisława Szymborska e ai versi pieni di levità e ironia che la poetessa polacca dedica alla morte. La giovane e pluripremiata compagnia dei Gordi si cimenta con un esperimento teatrale dalla forte connotazione poetica, completamente spoglio di parola e affidato solo all’azione mimica delle suggestive maschere di cartapesta (nate dalla maestria della scenografa Ilaria Ariemme) e a un immaginifico uso dello spazio scenico e del corpo degli attori. Le maschere (alcune di esse sono direttamente ispirate ai disegni di Otto Dix) sono le vere protagoniste di questo ironico teatro di figura che prova a raccontare un tema immenso come la Morte e ci riesce senza peraltro sconfinare nel lugubre, senza esagerare insomma!

Dieci maschere che scelgono – spiega il regista, Riccardo Pippa – gli attori (e non viceversa!) che andranno a indossarle, incarnando una sfilza di personaggi, tutti candidati al trapasso. Tra questi: una vecchia malata terminale, un giovane coinvolto in un incidente stradale, un tentato suicida, una copia di anziani, un soldato, un trans.

Il sipario si apre su una scena disadorna, al centro della quale c’è una panchina e un lampione. Sulla panchina, in atteggiamento rilassato, vediamo una figura maschile che indossa un cardigan celeste; c’è anche una valigia di cuoio vicina alla panchina a simbolizzare l’attesa di un viaggio: il personaggio mascherato altri non è che la Morte. Presentataci alla stregua di un funzionario annoiato e blasé, la Morte prova a svolgere le proprie mansioni ma lo fa con modi flemmatici e privi di entusiasmo. A pensarci, è ciò che la Morte vorrebbe mettere in atto da eoni immemori senza riuscire a produrre nulla di straordinario, nonostante la caparbietà che la contraddistingue; un lavoro insomma privo di fantasia, di stimoli creativi, di brividi, di crescita professionale diremmo oggi… non sorprende dunque l’atteggiamento blasé della Morte/impiegato che non vede l’ora di andarsene in vacanza, magari a passo di samba come l’angelo strafottente, altro personaggio chiave di questo racconto ctonio in salsa carnevalesca. E invece si trova costretta a indossare il cappuccio, suonare la campana a morto e industriarsi a convincere i propri titubanti clienti a passare dall’altra parte.

La Morte se ne sta dunque seduta sulla panchina e intanto prova a ingannare l’attesa adoperando un sigaro che non riesce mai ad accendere. Forse la povera Morte vorrebbe solo andare in pausa caffè/sigaretta ma il lampione che si accende a intermittenza, annunciando l’arrivo ininterrotto di nuovi clienti, non le concede un attimo di tregua. Davanti alla Morte sfilano le maschere; sono molto diverse le une dalle altre – simboli del variegato caleidoscopio umano. Lei, la Morte, è sempre uguale a se stessa: anche la seconda Morte che più tardi le darà il cambio, indossa una identica maschera a forma di teschio sul quale, al momento decisivo, sarà calato il cappuccio nero. In fin dei conti, forse sono proprio le maschere umane a smascherare la verità della morte, una verità del tutto banale e scevra di mistero (come in fondo tutte le cose, anche le più gravi sono di una banalità sconcertante – Hannah Arendt docet). A desacralizzare la figura della Morte contribuiscono anche i versi della Szymborska proiettati alle spalle degli attori:

Non sa fare neppure ciò

che attiene al suo mestiere:

né scavare una fossa,

né mettere insieme una bara,

né rassettare il disordine che lascia.

Occupata a uccidere,

lo fa in modo maldestro,

senza metodo né abilità.

Come se con ognuno di noi stesse imparando.

Una Morte incompetente, maldestra, che non convince (ha persino il cardigan bucato). Infatti, ad eccezione del soldato e del vecchio, nessuna delle figure che si palesano nel limbo si avvia poi all’aldilà (a sinistra della scena). Quasi tutte escono dalla parte destra, rimanendo nell’aldiquà. Per tre volte farà la sua esilarante comparsa il tentato suicida con la corda da impiccato, l’impermeabile, gli occhiali e la lettera di addio che la Morte legge distrattamente, senza lasciarsi impressionare.

Lo spettacolo arriva anche a toccare registri più intensi nella scena del soldato, l’unico che va incontro alla morte in maniera spavalda e fulminea. La moglie incinta lo vorrebbe seguire nell’aldilà ma a impedirglielo ci pensa il feto che, scalpitante di vita nel suo grembo, la rimanda nell’aldiquà a furia di calci.

Ci ripensa anche il giovane malato di selfie che mostra il dito medio alla Morte (lei non se la prende e, dalla panchina, gli fa capire con imperturbabile aplomb che è solo questione di tempo e che si rivedranno presto). Stessa titubanza coglie anche il trans/prostituta finito in overdose, mentre ce la fa l’anziano che si addormenta teneramente tra le braccia della Morte: altro climax poetico raggiunto da questo teatro muto di parole ma straripante di simboli e rimandi intertestuali. Vediamo la Morte togliere dolcemente la maschera al vecchio per consegnarlo al pubblico nella più intima nudità del suo essere: sotto la maschera si cela il viso di un bellissimo giovane!

Alla Morte comunque non gliene va bene una e dopo l’ennesimo intoppo (sembra essersi attorcigliata la corda dell’invisibile campana), ecco irrompere sulla scena un personaggio travolgente: l’angelo rottamatore con tanto di bloc notes e verbali per non adempienza che fa firmare alla Morte imbranata. Ancheggiando sinuosamente sulle note di Águas de Março, l’angelo porta in scena una contagiosa allegria e tutta la leggerezza di chi può sentirsi libero di sbeffeggiare la Morte, avendo capito che, per ricordare ancora una volta i versi della poetessa:

Chi ne afferma l’onnipotenza

è lui stesso la prova vivente

che essa onnipotente non è.

Infine, questa Morte ce la sta mettendo tutta ma non ce la fa, non ce la fa… già, perché c’è sempre qualcosa di inafferrabile che sfugge al suo dominio, un dominio da lei magari neanche voluto in fin dei conti. È lecito congetturare che si tratti di un’eredità ingombrante di chissà quale demiurgo che nella sua follia ne ha decretato l’ineluttabilità. Alla fine, questa Morte imbranata ci sta anche simpatica: come non capire le sue tribolazioni e come non essere solidali con la sua voglia di evasione dal solito tran tran. E diamole un accendino per accendersi quel sigaro tanto agognato e facciamola andare in vacanza! Certo, il rischio sarà poi quello di dover fare i conti con le intermittenze della morte, come mette in guardia José Saramago nell’omonimo romanzo.

Siamo tutti recalcitranti alla morte. E la Morte sa molto bene che:

Non c’è vita

che almeno per un attimo

non sia stata immortale.


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