Rotta balcanica, la mancata accoglienza

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Silvia Maraone, project manager di IPSIA, Ong delle ACLI, lavora lungo la rotta balcanica da più di tre anni. Un’intervista in cui fa un quadro completo della difficile situazione, soprattutto in Bosnia Erzegovina, dove il flusso di persone che cercano di arrivare nell’Ue è in aumento

Quest’anno, così come lo scorso anno, la rotta balcanica è stata la rotta prioritaria di ingresso verso l’Unione europea. Già dall’anno scorso, con la chiusura della rotta centrale del Mediterraneo il numero delle persone che partono dalla Libia verso Lampedusa è calato, come è in calo lungo la rotta occidentale cioè verso la Spagna.

Rimane sempre più percorsa la rotta orientale, cioè quella che dalla Turchia punta verso la Grecia e poi a risalire. Il rapporto UNHCR di agosto 2019  parla chiaro: nei primi otto mesi di quest’anno sono arrivati attraverso le tre rotte principali 60.600 persone; di queste più di metà in Grecia (con 33.600 arrivi, via mare o terra) e per il restante 19.600 in Spagna, 5.100 in Italia e una piccola parte su Cipro con 1.300 arrivi.

Rispetto alla parte “alta” della rotta orientale, dall’aprile del 2018 assistiamo al fenomeno di una rotta secondaria che ha portato ad un aumento massiccio degli arrivi in Bosnia Erzegovina, attraverso due flussi. Quello principale, che dalla Grecia va verso Macedonia del Nord e Serbia settentrionale, vede il passaggio delle persone in Bosnia Erzegovina nell’area di Zvornik e di Bijeljina attraversando il fiume Drina con piccoli gommoni o percorrendo a piedi i ponti della ferrovia.

Da qui arrivano alla città bosniaca di Tuzla, distante circa 70 km, dove si registrano all’ufficio stranieri e rimangono accampati una o due notti nei pressi della stazione. Una situazione al limite, dove operano solo gruppi di volontari, cittadini non organizzati in associazione, che da più di un anno si fanno carico di queste persone in transito fuori dall’ufficio stranieri o attorno alla stazione dei treni. Nonostante IOM e UNHCR  abbiano fatto promesse di intervenire rispetto alla situazione a Tuzla, è certo che non verranno aperti campi.

Poi c’è l’altro flusso che dalla Grecia si muove verso l’Albania e poi in Montenegro verso la Bosnia Erzegovina. Questa rotta è stata percorsa soprattutto nei mesi primaverili ma durante l’estate è diventata secondaria perché le polizie di frontiera al confine tra Montenegro e Bosnia sono particolarmente dure. Da alcune testimonianze raccolte e inserite in vari report emerge che alcuni migranti sono stati tenuti chiusi in gabbia  – uomini, donne e bambini – violando basilari diritti umani. Inoltre, sul fronte albanese la polizia è stata affiancata da Frontex [la prima missione di Frontex – European Border and Coast Guard Agency – nei Balcani occidentali è partita in Albania il 21 maggio 2019  ndr] e quindi ha esteso e intensificato i controlli per cui i trafficanti, che di fatto sono quelli che decidono le rotte, hanno sviluppato i passaggi dalla Serbia su Zvornik e Bijeljina.

Dal rapporto UNHCR che hai citato risulta che ad agosto sono arrivate in Grecia 9.300 persone, il più alto numero mensile di arrivi da quando è entrato in vigore l’accordo Ue-Turchia del marzo 2016. Come mai? E con quali conseguenze?

Il presidente turco Erdoğan, nei mesi passati aveva già minacciato l’Ue rispetto alla possibilità di lasciare entrare in Unione europea i quasi 4 milioni di rifugiati che in questo momento si trovano in Turchia. Ad inizio settembre ha ribadito con forza questa minaccia, chiedendo una rinegoziazione dell’Accordo Ue-Turchia, ricordando che l’Ue non ha saldato i suoi debiti rispetto ai fondi previsti dall’accordo [la Turchia ha ricevuto ad ora 3 miliardi di euro dei 6 promessi nel 2016, ndr] ma soprattutto che non sono stati fatti passi avanti nella mediazione diplomatica sulla richiesta di liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e sul processo di integrazione europea. Ciò detto, è vero che da quest’estate sono aumentati notevolmente i numeri lungo tutta la rotta balcanica, così come gli arrivi in Grecia.

Accanto ai numeri dell’UNHCR basta seguire i siti della Guardia costiera turca e greca, che registrano il movimento di gommoni, canotti e barchini nella striscia di mare tra i due paesi, dove si legge nero su bianco che gli sbarchi sono aumentati significativamente sulle isole greche. Solo nella settimana 23-27 settembre  l’UNHCR ne ha contati 3.164 – contro i 596 arrivi nella stessa settimana nel 2018 – con una media giornaliera di 452 persone sbarcate soprattutto sull’isola di Lesvos. Isole che sono sempre più al collasso, con campi profughi drammaticamente sovraffollati e condizioni di assistenza minime senza dimenticare le decine di persone che vivono fuori dai campi ufficiali senza acqua, cibo, riparo, assistenza medica. L’incendio nel campo di Moria su Lesvos, che ospita 12mila persone ma ha una capacità di 3.000 posti, è l’ennesima dimostrazione di una situazione esplosiva.

Il governo greco ha già spostato centinaia di persone dalle isole nei campi a nord, nell’area di Salonicco, e ha annunciato un ulteriore spostamento per far posto ad altre 2-3000 persone. Questo vuol dire che gli arrivi sono costanti e massicci e ci si aspetta, finché il tempo è buono e stabile, altri arrivi in massa.

Questo si riflette dunque sulla restante parte della rotta. Quali sono le conseguenze in questi paesi più a nord?

Sì, se in Grecia c’è un costante afflusso di persone in arrivo dalla Turchia, queste si rimettono poi in cammino verso i paesi balcanici. In Serbia, a differenza della Bosnia Erzegovina che è il paese un po’ “collo di bottiglia”, in questo momento ci sono meno di 3000 persone accolte nei 16 campi rimasti aperti [secondo il rapporto UNHCR di agosto 2019  sono 2997, ndr]. Significa che i campi non sono sovraffollati e le condizioni sono buone. Ciò detto, il Commissariato serbo per i Rifugiati si aspetta un aumento di presenze, con l’inizio della brutta stagione, di persone che invece di restare per strada preferiranno stare nei campi e venire registrati.

Un aumento di persone che in realtà abbiamo già visto nella tarda primavera/inizio estate a Belgrado, nei soliti luoghi di concentramento: i migranti dormono nel parco o negli edifici abbandonati, quindi nell’area di Sava Mala intorno alla stazione, e nel cosiddetto “Afgan park”. Vi è un costante passaggio che da un anno e mezzo/due non era così significativo. Le organizzazioni che lavorano qui da sempre, come “Infopark Serbia  “, hanno verificato che i numeri di chi staziona nei parchi poi corrispondono ai numeri di chi si concentra ai confini settentrionali della Serbia per passare in Bosnia.

E in Bosnia Erzegovina, quanti sono i migranti e come è organizzata l’accoglienza?

fine luglio l’UNHCR  indica a circa 8mila le presenze nel paese – il 20% sono minori e di questi i due terzi non accompagnati – e rileva che nel mese di luglio il numero degli arrivi (4.465) è doppio rispetto al luglio 2018; inoltre nello stesso report, citando come fonte le autorità bosniache, scrive che sono quasi 40mila le persone entrate dal 1° gennaio 2018.

A parte il campo di Ušivak  , a Hadžići, non lontano da Sarajevo e il campo di Sokolovac  vicino a Mostar, ad oggi il luogo in cui ci sono più campi ufficiali è la zona di Bihać, nel Cantone di Una-Sana: qui ci sono il “Miral  ” a Velika Kladuša, a Bihać i campi “Borići  ”  e “Sedra  ” per nuclei familiari, il “Bira  ” a Bihać.

Poi, da giugno di quest’anno, il governo cantonale e il comune di Bihać hanno aperto un “campo” maschile – tra i quali tanti minori non accompagnati – a Vučjak, in un’area di un’ex discarica vicino al confine con la Croazia. È un campo a cielo aperto in cui chi vi risiede dorme sotto alle tende, con solo otto bagni, senza elettricità, acqua corrente, assistenza minima. Quindi un luogo, oltre che pericoloso dal punto di vista epidemiologico, in cui le condizioni calpestano del tutto la dignità dell’essere umano. Tant’è che questo campo è stato fortemente criticato sia da IOM  (Organizzazione internazionale per le migrazioni), che gestisce i campi ufficiali nel paese, sia dalle Nazioni Unite che hanno chiesto al comune di Bihać di smantellarlo.

Ma il sindaco e il vicesindaco mantengono sempre la stessa posizione… e cioè che devono preoccuparsi dei propri cittadini bosniaci, quindi non vogliono migranti in giro per la città, non vogliono che i campi siano sovraffollati, non vogliono che i profughi stiano concentrati nel Cantone Una-Sana. Questa risposta è una specie di minaccia, nel senso che con il freddo cominceremo a vedere scene orribili, con persone al freddo, sotto alla pioggia o alla neve, nel fango, senza scarpe e vestiti oltre che feriti.

È una situazione che potrà solo peggiorare nei prossimi mesi, se non si prenderà l’urgente decisione di aprire nuovi campi o di riempire all’inverosimile i campi esistenti. È una prospettiva che abbiamo già visto in passato. Proprio per essere già accaduto, non dovrebbe più accadere e mi lascia stupefatta il fatto che in Bosnia la questione migratoria venga trattata ancora come emergenziale e tutto ricada solamente sulla zona Una-Sana. Non è sostenibile.

Politicamente parlando la situazione resta confusa. Se la Grecia e la Serbia sono paesi in cui la gestione migratoria è abbastanza stabilizzata, se escludiamo i grossi problemi di sovraffollamento nei campi sulle isole greche, la Bosnia rimane il paese più critico. Ci sono state alcune visite di europarlamentari, l’ultima a fine settembre a Vučjak al quale è seguito un incontro con il sindaco di Bihać. Però è una tra le tante visite fatte, tra politici e giornalisti, che arrivano, denunciano la situazione, ma poi continua a non mutare nulla e non credo muterà a breve.

Hai parlato di feriti. A causa dei pushback violenti della polizia croata?

Sì, a Vučjak ci sono soprattutto coloro che subiscono la violenza della polizia croata che li intercetta e li rimanda indietro in Bosnia. A proposito di questo, è bene ricordare che la violenza usata dalla polizia su tutti i confini europei non è mai diminuita. Le violenze avvengono giornalmente sia sul confine bosniaco-croato, sia sul confine croato-serbo, come su quello ungherese-serbo o rumeno-serbo. Le polizie si accaniscono su questi migranti, con l’esproprio dei cellulari e dei soldi, gli zaini bruciati, picchiati e più volte è accaduto che siano stati spogliati – lasciati letteralmente in mutande e senza scarpe – prima di rimandarli indietro.

Ma in Croazia ha raggiunto una sistematicità rilevata da diverse organizzazioni. A questo proposito ricordo il report di Amnesty International di marzo, direi la voce più autorevole rispetto a questa tematica, ma anche i report mensili di “Border Violence Monitoring  “, realizzati da un numeroso gruppo di associazioni e organizzazioni come “Are you Syrious?”, “No Name Kitchen” o “Center for Peace Studies  ” di Zagabria. Oltre che da alcuni poliziotti che nel marzo 2019 hanno denunciato all’Ombudswoman croata  , Lora Vidović, il comportamento violento dei colleghi.

Sono decine le testimonianze e le denunce. Tra i tanti casi ne nomino solo due: persone rinchiuse in un garage della polizia a Korenica, in Croazia, anche per due giorni e notte senza acqua cibo e bagni, per poi essere caricate sui furgoni, sballottate attraverso strade secondarie, lasciate in mezzo ai boschi al confine con la Bosnia e intimati a non provare più l’ingresso in Croazia.

L’altro caso è quello di Khoubaieb, un ragazzo tunisino che si faceva chiamare Alì. A febbraio era stato vittima di un respingimento, in cui la polizia croata gli aveva fatto togliere le scarpe… aveva dovuto tornare indietro a Bihać camminando a piedi scalzi nella neve attraverso i boschi. È arrivato con le dita dei piedi in cancrena  a causa del congelamento. Era un ragazzo con disagi psicologici e ha rifiutato le cure – che prevedevano l’amputazione degli arti. In tutti questi mesi non è stato curato né dal punto di vista della stabilità mentale né da quello fisico. Di recente ha tentato di nuovo il “Game” [“The Game” è il nome che viene dato dai migranti al tentativo di attraversamento di una frontiera, ndr] nei boschi bosniaci; qui è stato abbandonato in stato confusionale dal resto del gruppo, poi è stato ricoverato all’ospedale di Bihać dove è morto la scorsa settimana.

Hai nominato alcune associazioni che denunciano le violenze. Dal punto di vista dell’assistenza ai migranti, qual è la presenza sul territorio?

La presenza delle Ong e delle associazioni sul territorio, soprattutto bosniaco, è abbastanza scarsa, nel senso che non è facile ottenere i permessi per lavorarvi. Ad esempio, pochi giorni fa un gruppo di medici  e paramedici volontari – soprattutto tedeschi e austriaci, che curavano le persone al campo di Vučjak – sono stati fermati dalla polizia in capo all’ufficio stranieri e quasi tutti espulsi dal paese perché non erano in possesso del permesso di soggiorno. Mentre chi aveva i documenti in regola per poter soggiornare sul territorio bosniaco non possedeva l’autorizzazione ad operare nel campo per cui gli è stato impedito di proseguire.

Questa sorta di impedimento ai volontari internazionali delle associazioni non registrate, che vengono dall’estero per lavorare con i migranti in Bosnia, come in Serbia, lo abbiamo già visto in questi anni. Ciò che è stupefacente è il fatto che per 4 mesi questi volontari siano stati lasciati operare – in questo caso letteralmente perché erano medici – quindi erano sotto gli occhi di tutti, la loro presenza era nota, e da un giorno all’altro li abbiano mandati via.

Non si capisce quale politica vi sia dietro. “Are you Syrious?  ” ha scritto nel rapporto del 28 settembre che MSF – Medici Senza Frontiere – ha già stretto un accordo per tornare ad operare nella zona di Bihać, da dove se n’era andata quando IOM aveva aperto i suoi campi. Viene da pensare che abbiano voluto far fuori i volontari indipendenti per dare spazio a un’organizzazione registrata, ma per ora sono illazioni che non so quanto siano fondate.

Mentre voi di IPSIA dove e come operate?

IPSIA è presente lungo la rotta balcanica sin dal 2015 con le prime missioni di monitoraggio, dal 2016 con i primi interventi a supporto della Caritas Italiana  nel campo di Preševo dove grazie ai fondi ricevuti da Ipsia Trentino dalla Provincia autonoma di Trento [progetto “Emergenza rifugiati sulla Western Balkan Route  ”, ndr] si era sostenuto il lavoro di prima accoglienza dei migranti, allora ancora in transito lungo la rotta.

Dal 2017 abbiamo aperto all’interno del centro per asilo di Bogovadja in Serbia un “Social Cafè” e poi abbiamo dato il via ai primi interventi psico-sociali che vanno avanti ormai da quasi tre anni. Sempre in collaborazione con Caritas Italiana  , dall’aprile del 2018 abbiamo cominciato a lavorare anche in Bosnia Erzegovina a Bihać, dove all’inizio i nostri operatori hanno sostenuto il lavoro della Croce Rossa locale nei campi profughi informali. A dicembre dello stesso anno abbiamo aperto all’interno del campo “Bira” una replica del progetto Social cafè, uno spazio di aggregazione, socializzazione, educazione non formale e scambio tra la popolazione del campo e i volontari.

Inoltre, nell’ambito di un progetto che Ipsia segue grazie al supporto e al partenariato con Caritas Italiana in Serbia come in Bosnia, nel 2019 abbiamo accolto una quarantina di giovani volontari italiani  . Soprattutto per rendere migliore la qualità del tempo che trascorrono queste persone dentro i campi, riconoscendoli non come numeri ai quali distribuire beni ma come – appunto – persone. Con una storia, un passato e speriamo un futuro più felice.

Confermi che anche questa rotta può risultare mortale, come alcune organizzazioni denunciano?

Lungo tutto l’anno ci sono stati episodi di scomparse o di persone morte, come ad esempio riporta Missing Migrants  [totale di 39 morti tra Grecia e Slovenia, dal 1° gennaio al 2 ottobre 2019, ndr]. La causa principale rimane l’annegamento, sia nei fiumi tra la Slovenia e la Croazia – il Dobra, il Kupa – così come sul fiume Drina al confine tra Serbia e Bosnia e l’Evros tra Turchia e Grecia. Ma con l’aumento dei passaggi via mare tra Turchia e Grecia stanno aumentando anche i casi di affondamento dei canotti o barchini. Come il 27 settembre scorso  , in cui sono stati recuperati dalla guardia costiera di Atene alcuni superstiti e i corpi di due donne e cinque bimbi annegati nei pressi dell’isolotto di Inousses, vicino a Chios.

Le persone che attraversano la rotta balcanica arrivano principalmente da Afghanistan, Pakistan, Iran, Siria e Iraq, ma arrivano anche dal Nepal, India – persino da Cuba, facendo scalo a Mosca e poi Belgrado perché paesi che non chiedono loro il visto. Questo perché la rotta balcanica risulta comunque meno pericolosa di quella del Mediterraneo centrale dove il rischio di morire, come sappiamo, è altissimo.

Fonte: BalcaniCaucaso


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